da 1939 – 1945 il racconto della guerra giusta vol.II, di Pierluigi Raccagni
La Direttiva n.16 del PCI, redatta da Luigi Longo e pubblicate sulla “Nostra lotta” erano una sentenza definitiva sul nazi – fascismo in Italia che non lasciava spazio a nessuna apertura diplomatica.
Nel documento, dopo un incitamento “all’assalto finale”, venivano indicate norme precise di comportamento per i militanti comunisti arruolati nella resistenza:
“Predisporre vere e proprie azioni insurrezionali;
iniziare gli attacchi in forze ai presidi nazifascisti e spingere a fondo la liberazione di paesi, vallate e intere regioni;
sviluppare azioni più ampie nelle città per la liquidazione dei posti di blocco, di sedi fasciste e tedesche, di commissari di polizia;
avviare lo sciopero generale insurrezionale”.
Nella seconda parte del documento si specificava la condotta da tenere davanti ad ogni forma di attendismo.
Era questa una sezione decisiva, che mandava praticamente a monte i tentativi dei moderati e degli Alleati di una consegna soft dei pieni poteri nelle mani delle armate inglesi e americane:
“…per nessuna ragione il nostro partito e i compagni che lo rappresentano in qualsiasi organismo militare o di massa, devono accettare proposte, consigli, piani tendenti a limitare, a evitare, a impedire l’insurrezione nazionale di tutto il popolo.
Ma se, nonostante tutti i nostri sforzi, non riuscissimo, in simili casi, a dissuadere i nostri amici e alleati, noi dobbiamo anche fare da soli, cercando di trascinare al nostro seguito quante più forze possibili ed agendo sempre, però, in nome del CLN e sul piano politico dell’unione di tutte le forze popolari e nazionali per la cacciata dei tedeschi e dei fascisti e mettendo bene in chiaro che con la nostra attività noi ci proponiamo affatto degli scopi e degli obiettivi di parte…..”.
Cfr. Gianni Oliva, I Vinti e i Liberati, Milano 1994, pag.544.
Di fronte all’iniziativa di Mussolini di trovare in extremis una soluzione politica anche attraverso la mediazione della Chiesa, tramite l’Arcivescovado di Milano, il 12 aprile il CLNAI ribadiva che non era possibile nessun compromesso e ordinava al Corpo Volontari della Libertà di “procedere alla cattura di Mussolini, Pavolini, Graziani, Zerbino, Vidussoni, Ricci e altri tredici gerarchi del direttorio fascista”.
Il partito comunista, che controllava almeno il 40 per cento delle forze armate partigiane, ebbe un’importanza determinante nel non trattare coi fascisti.
Ma bisogna dire che anche il partito d’azione e i socialisti erano pronti per l’insurrezione finale.
Così come all’insurrezione non si opposero democristiani e liberali.
MUSSOLINI ULTIMO ATTO
I fascisti e i nazisti comprendevano benissimo che le strade da prendere erano solo due: o l’annientamento, dopo una difesa disperata, oppure la resa senza condizioni.
Benito Mussolini, che ormai diffidava di tutti, aveva confidato alla moglie il desiderio d’incontrare il Cardinale Schuster di Milano, parlando con la sorella aveva accennato alla difesa del ridotto della Valtellina con la volontà di morire sul suolo italiano.
L’idea di chiudere la grande epopea fascista, andando in Svizzera, certamente non lo allettava.
Ma lasciava le porte aperte a qualsiasi soluzione.
Non aveva più niente da perdere.
Il 17 aprile alle ore 21 Mussolini arrivò a Milano con un piccolo seguito e un distaccamento tedesco, fissando la sua residenza alla Prefettura di corso Monforte.
Le notizie che provenivano da Bologna mettevano i circoli fascisti di Milano in uno stato d’angoscia opprimente.
Iniziava lo squagliamento delle forze Repubblicane.
I pareri erano fortemente discordi, come è normale nei casi dove all’interesse generale della patria si contrappone l’interesse personale di salvare la pelle.
Mentre l’esempio nazista, che trasformava ogni città in fortezza, aveva portato alcuni estremisti come Barracu ad immaginare di fare della capitale lombarda, “l’Alcazar del fascismo”, trasformando il palazzo della prefettura e gli adiacenti edifici in bunker, altri, come Pavolini, insistevano sulla Valtellina che lui stesso aveva ispezionato pochi giorni prima.
Non c’era il clima che aleggiava nel bunker di Hitler, dove al personale veniva consegnata una compressa di cianuro e dove Hitler con signora si apprestavano al suicidio.
Nel contempo, tanto per dimostrare la sua volontà di trattare anche coi socialisti, dava incarico a Carlo Silvestri, (un giornalista socialista confinato ai tempi del delitto Matteotti, perché aveva scritto come il capo fosse complice del delitto), passato poi alla repubblica di Salò, di cedere la repubblica allo PSIUP, con la speranza che questi difendesse la socializzazione delle forze produttive, attuando il piano di riforme sociali previsto dal Congresso di Verona.
La soluzione era sconcertante.
Mussolini voleva dimostrare a tutti i costi che lui era ritornato Repubblicano e socialista: Riccardo Lombardi e Valiani respinsero sdegnati la proposta portata da Silvestri.
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Si arrivò così al famoso incontro dell’Arcivescovado fra Mussolini e gli esponenti della resistenza, unico serio tentativo di negoziato da parte della Repubblica sociale.
L’incontro era stato organizzato dall’industriale Gian Riccardo Cella, che aveva acquistato il Palazzo e i macchinari del Popolo d’Italia, il giornale di Mussolini.
Il Duce lasciò il cortile della Prefettura in Monforte il giorno 25 aprile, il Cardinale gli aveva inviato una vecchia limousine che lo accompagnasse.
Il generale Graziani venne invitato all’incontro un po’ più tardi.
Alle 3, 30 ebbe luogo una specie di riunione del Comitato di
Liberazione nazionale, nel quale il generale Cadorna, Marazza e
Lombardi furono designati a trattare coi fascisti.
I tedeschi intanto avevano promesso di arrendersi alle 17,00.
Mussolini, quando arrivò al palazzo arcivescovile, fu ricevuto da solo dal cardinale Schuster che, con grande gentilezza paragonò Mussolini a Napoleone, regalandogli anche un libro su S. Benedetto.
Come annoterà poco dopo il Cardinale nelle sue memorie, ad un certo punto Mussolini disse che il suo programma comprendeva
“…due parti e due tempi diversi. In un primo tempo, domani l’esercito e la milizia Repubblicana verrebbero disciolti: egli poi si sarebbe ritirato in Valtellina con una schiera di tremila camicie nere”.
“Forse saranno un po’ di più, ma non di molto. Non mi faccio illusioni”.
Cfr.W. Deakin, opera cit. pag.787
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Bisogna ricordare a questo punto che sugli ultimi giorni di vita di Mussolini quasi tutte le fonti sono memorialistiche e anche discordanti e contradditorie.
Ma su alcune circostanze storici e studiosi di parti avverse comunque concordano.
Uno dei punti unificanti è il senso di quello che successe in Arcivescovado.
Mussolini in Arcivescovado venne a trovarsi veramente solo in senso politico e umano.
Il cardinale Schuster e monsignor Bicchierai erano al centro di colloqui e segreti sondaggi che da mesi intercorrevano fra gli Alleati, i partigiani, i fascisti e i tedeschi.
Mussolini si illudeva di essere ancora una volta in grado di dettare delle condizioni.
Il colloquio preliminare del 25 aprile in Arcivescovado fra il Cardinale e Mussolini, però, rivelava già che, al di là delle apparenze, il Duce era un “uomo inebetito dall’immane sventura”, come scrisse poi Schuster.
Alle 18 finalmente arrivarono i membri del comitato.
L’accoglienza del Cardinale fu cordiale.
Furono introdotti immediatamente nel salotto.
Attorno al tavolo, accanto a Mussolini, come a fargli coraggio prese posto Schuster, Cadorna prese posto dirimpetto con Lombardi e Marazza.
Seguivano poi Barracu, Graziani e Bassi.
La conversazione all’inizio non andò malissimo per il Duce.
Quando Marazza disse che “aveva soltanto da chiedere una resa senza condizioni”, il Duce rispose che l’avevano ingannato perché gli avevano assicurato che le famiglie dei gerarchi si sarebbero potute radunare a Varese e le truppe concentrare in Valtellina.
Marazza rispose che queste erano le modalità dell’accordo dopo che fosse stata accettata la resa.
Gratuito per il 25 Aprile

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