FENOMENOLOGIA DEL 1977 tratto da Romanzo Armato lulu.com  di Pierluigi Raccagni

Era il 1977 l’anno degli indiani metropolitani e dell’autonomia organizzata.

Per me, che militavo in Lotta Continua nella sezione  “Milano – Nord”, la percezione temporale coincideva con la scansione delle lotte.

Tutta una generazione in quegli anni si era assuefatta ad un pensiero unico tutto interno alla variegata tribù dell’estremismo extraparlamentare di sinistra.

Il 68’, era l’anno degli studenti.

Il 69’, quello dell’autunno caldo.

Il 12 dicembre dello stesso anno quello della strategia della tensione e della strage di stato.

Il 1970 e il 1971, quelli della militarizzazione del movimento e degli scontri coi fascisti all’Università.

Il 1974, quello della  battaglia sul divorzio.

Il 1975, quello di Varalli e Zibecchi a Milano.

Il 1976, quello del flop elettorale di Democrazia Proletaria e della deriva movimentista armata.

Si invecchiava senza troppa fretta,si parlava di rivoluzione a volte solo per spostare il tempo delle future responsabilità. E l’utopia del 68’ sembrava non finire mai.

Il prolungamento dell’età giovanile all’indefinito aveva un fascino esistenziale superiore a qualsiasi altro desiderio materiale.

Si viveva nel liquido amniotico della rivoluzione permanente, se qualcuno cominciava a pensare al futuro da un punto di vista piccolo – borghese veniva considerato un infelice.

Il Movimento era una splendida miscellanea di giovani borghesi generosi, illuminati, con futuro assicurato e di giovani piccolo –borghesi e operai che sognavano di non fare la fine dei loro padri: pochi soldi, molto monotono lavoro e tanti  sacrifici.

Finchè durava quel meraviglioso indefinito dove i contrari stabilivano una perfetta armonia tutto poteva resistere per  altri cento anni.

L’importante era che il tempo si cristallizzasse in un vitalismo rivoluzionario che non facesse pensare ad un futuro banale, da gente qualunque.

In fondo il gioco era così scontato che romperlo sembrava un delitto.

Il popolo del tirare a campare, quello che mette insieme la rata della macchina alla rata del mutuo per la casa, non è che fosse disprezzato perché  era il referente sociologico del proselitismo rivoluzionario.

Ma l’avanguardia comunista non poteva affogare la vocazione romantica dello Sturm und Drang nella quotidianità.

Per impadronirsi della storia bisognava schifare la cronaca, l’importante era che qualcuno pagasse la bolletta della luce o le vacanze al mare.

Il corteo

Ricordo che ero sinceramente perplesso, da ogni punto di vista. C’era in programma un corteo,duro e incazzato.

C’era pure la tragedia di una compagna morta, Monica.

L’ennesima vittima di quando eravamo giovani e forti.

Avrei desiderato meno seriosità e più sacralità.

Durante i cortei dell’antifascismo militante, infatti, che regolarmente si svolgevano il sabato pomeriggio, succedevano delle cose ributtanti in ogni senso.

I fascisti, che non erano fessi, solitamente non si facevano vedere.

E così la rabbia del proletariato trovava il modo di oggettivarsi nello sfasciare la testa a qualche ragazzotto  che  passava per caso per il centro.

Il malcapitato, con i capelli corti e gli occhiali da sole o le scarpe a punta, che poi risultava essere un anonimo e innocente commesso di negozio, veniva scambiato per un pericoloso provocatore nero al servizio della questura, dei carabinieri, e forse della Cia.

Il rituale da stalinismo da operetta era grottesco, macabro e faceva del male.

Il “provocatore” veniva indicato come avesse la stella di Davide nella Varsavia del ’39, veniva inseguito da un drappello del servizio d’ordine armato di regolamentare chiave inglese Hazet 36,e a volte, veniva picchiato fino alla regolamentare uscita di materia cerebrale.

Nascondere l’evidenza di tale sciagura politica, tentare di spiegare tutto questo come rabbia proletaria era, per me, un’offesa, sia al minimo senso del pudore, sia alla rabbia proletaria.

Anche in questo caso, però,  si diceva che non si poteva disprezzare una questione di fondo.

L’antifascismo militante, in più di un’occasione, era stata una risposta considerata “universalmente giusta contro gli stragisti di stato.” Dopo le inchieste sulla strage di Piazza Fontana,  che i servizi segreti avevano depistato collusi con l’eversione di destra, anche le tradizionali forze della sinistra parlamentare avevano visto in quei giovani rivoluzionari, che il sabato marciavano all’ombra delle bandiere rosse del terzomondismo, un bastione democratico contro l’involuzione reazionaria dello stato.

Ma ormai la mattanza era una forma di manierismo antifascista, uno squadrismo frustrante da sabato gauchista.

Il giorno dopo

Al funerale di Monica c’erano migliaia di giovani.

Gli studenti del liceo Giordano Bruno e i loro amici e i loro compagni.

Gli adulti li notavi in quel mare di gioventù. Fra loro i parenti di Monica, tutto il corpo docente della scuola, e alcuni genitori della classe di Monica.

C’erano anche tante persone del quartiere che conoscevano la ragazza.

Sembrava passato un secolo da quando avevo trovato Monica, morta, nei bagni della scuola.

Da allora erano successe tante cose che mi avevano lasciato il segno.

I giornali, le Tv  e le radio, che non avevano la presenza coloniale e imperialista di oggi sulla vita privata delle persone, avevano dato all’evento un enorme risalto mediatico.

Le radio private avevano cercato di rispettare il dolore della famiglia e degli amici pur non rinunciando al tono di controinchiesta che la morte di Monica richiedeva.

Radio Rossa, l’emittente più seguita in città dal movimento, aveva fornito un’interpretazione della morte della ragazza perfettamente in linea con quello che allora era considerato il politicamente corretto della sinistra extra- parlamentare:

“La compagna Monica era vittima del sistema e degli spacciatori di  morte che erano quei fascisti che la questura conosceva benissimo e che lasciava liberi di controllare il mercato dell’eroina.

In cambio, così diceva Radio Rossa, quei bastardi in questura si facevano dare i nomi dei compagni del movimento che lavoravano contro lo spaccio della roba pesante.”

Non solo.

Attraverso i tossici persi, diventati pusher, gli sbirri controllavano il territorio vicino alle scuole più politicizzate e le università.

Monica, però, non era del giro che si fa.

Aveva voluto provare come tanti e c’era rimasta.

Era morta non per noia, ma per disperazione, perché il sistema corrotto e ipocrita della borghesia ai giovani rivoluzionari li voleva vedere o morti o in galera. Non importa per che cosa.

Dall’altra parte i giornali padronali c’erano andati giù pesanti.

Monica era descritta come una vittima del ’68 e anni seguenti, povera e innocente vittima di quel ribellismo giovanile che cattivi maestri avevano trasformato in tragedia.

“Bisognava finirla”, scriveva uno dei maestri dell’ipocrisia sul  Corriere della Sera.

“E’ ora che si faccia piazza pulita di una situazione di diffusa illegalità che da dieci anni fa dell’Italia un paese sudamericano in preda a convulsioni rivoluzionarie”, strombazzava un altro bellimbusto che era stato in prima fila a indicare negli anarchici i colpevoli della strage di stato del ’69.

Gli spiriti liberi e neo illuminati della sinistra per bene avevano preso la solita posizione da Ponzio Pilato.

Lacrime amare su Monica, nessun accenno ai bisogni del movimento giovanile e alle sue ribellioni calpestate, solito  monito alle riforme come unica soluzione alla decadenza del regime democristiano, che loro stessi tenevano in piedi.

La televisione nazionale dava la notizia senza approfondire troppo; soltanto un breve notiziario privo del supporto delle immagini.

Invece la discussione era all’arma bianca fra Lotta Continua, i Circoli del proletariato giovanile,  gli autonomi e tutti i gruppi dell’ ultrasinistra.

All’attivo serale, il giorno dopo la morte di Monica,  io che ero il prof. di Monica, avevo preso la parola per primo.

Sia per informare i compagni dell’accaduto, sia per proporre alcune valutazioni politiche.

Sapevo che a me sarebbe toccato il compito del rozzo materialista, che mette insieme i fatti azzeccando i congiuntivi.

L’invisibilità che sta dietro i fenomeni della vita e della morte di Monica,invece, la sostanzialità metafisica del loro contenuto più nascosto, le ragioni presenti e future del modo di agire collettivo sarebbero state fatte proprie dai dirigenti del movimento.

Io avrei messo in scena solo il materiale cronachistico, perchè   le categorie speculative toccavano a loro.

La divisione sociale del lavoro in un partito rivoluzionario non era frutto dell’alienazione, dicevano, ma frutto prezioso della fede nell’idea e nella disciplina di partito.

Il “ prendere la parola “, come forma di democrazia diretta del maggio francese, era, in questo modo, finita nel buco del cesso di qualche burocrate di mezza tacca.

Raccontai i fatti.

Senza tanti giri di parole.

Dissi quello che vidi, non dissi quello che provai, perché il senso del pudore mi impediva di manifestare sentimenti personali davanti ad un dolore che doveva essere universale.

La platea era attenta, cercava di carpire dal mio racconto la linea che avrei suggerito.

Se dicevo, “ i padroni hanno ammazzato Monica come ammazzano gli operai nelle fabbriche”, avrei avuto l’approvazione generale.  Finito il funerale, l’ennesimo, il giorno dopo si sarebbero regolati i conti con gli sbrirri e coi fascisti.

In soldoni: si sarebbe attaccata la polizia che presidiava una sede del fascio, due piccioni con una fava.

Parlai solo per dieci minuti e lasciai la parola a quelli che davano la linea.

Scoppiò la baraonda perché l’Autonomia voleva gli scontri ad ogni costo, mentre Lotta Continua diceva che bisognava portare in piazza pure gli operai perché anche loro avevano i figli che andavano a scuola e frequentavano le sedi del movimento. L’unica voce realmente sincera di quella sera fu quella espressa dal collettivo donne del paese dell’hinterland dove abitava Monica.

Una ragazzina magra, pallida, che aveva versato tutte le lacrime possibili gridò:

” siete dei maschilisti di merda, vi sbranate sul cadavere di Monica e vi disputate il vostro piccolo potere mafioso di padroni della piazza…vogliamo che la decisione sul come comportarsi sia presa dal  nostro collettivo donne, che d’ora in poi porterà il nome di Monica.”

Aveva sputato in faccia ai leader del movimento la rabbia e il dolore della sincerità e dell’onestà.

I Lenin del sabato sera fecero dietro front tutti quanti, salirono sul carro del femminismo che faceva molto chic, e invitarono le compagne a stilare il volantino che l’indomani sarebbe stato distribuito davanti alle fabbriche e alle scuole.

Io tornai a casa, per sempre.