All’inizio il problema è stato preso sottogamba.

Nel 2020 e 2021 la pandemia generando lo Smart working da casa ha incrementato anche in Italia un fenomeno incredibile.

Le dimissioni volontarie, in particolare di giovani dai 25 ai 35 anni, dal lavoro subordinato,anche a tempo indeterminato, che stando a casa hanno potuto valutare i pro e contro della loro vita, sono ormai un fenomeno molto diffuso.

I più qualunquisti e ciechi ai nuovi mutamenti all’inizio hanno parlato subito di reddito di cittadinanza,di poca voglia di lavorare dei giovani,di mancanza di umiltà,di nessuna propensione a fare la storica gavetta.

Ora che il Rdc ha avuto un ultimatum al 2024, con una caccia al povero abominevole, da parte del compassionevole Governo Meloni, ,vedremo se il reddito vs. la povertà avrà una valenza positiva nella ricerca di un lavoro.

Si ricorda che secondo il governo il reddito verrà tolto agli occupabili..che se non trovano lavoro dovranno passare alla Caritas per sempre.

Comunque proprio in questo anno solare,visto che il fenomeno si sta diffondendo ulteriormente anche in Italia ( è made in Usa,naturalmente) gli studiosi più sensibili e attenti hanno capito che non si tratta solo di bassi salari,orari impossibili, straordinari non pagati,ma di qualcosa che ha a che fare con l’alienazione sul lavoro di intere generazioni scontente e deluse.

La qualità della vita è sotto la lente d’ingrandimento della dialettica vita – lavoro subordinato,il si vive per lavorare e si lavora per vivere è in crisi,nonostante la recessione economica.

I nati fra il 1985 e il 1996 ( generazione Z) sono inconsapevoli fautori della filosofia del yolo,you only live once,si vive solo una volta, che costituisce quella che un professore di management dell’università del Texas ha definito Great Resignation.

Il partito delle dimissioni volontarie in Italia,secondo i dati dell’Inps è composto da 3.322.000 lavoratori,nei primi sei mesi dell’anno.

Non è che poi non facciano nulla: magari si inventano lavori,iniziative,laboratori,volontariato nel terzo settore,artisti di strada etc.

Si trasferiscono da città dove la vita costa cara a luoghi in campagna più a buon mercato, dove si vive anche con poco facendo lavori artigianali, oppure in attività agricole come produttori in proprio.

Quando negli anni settanta si parlava di rifiuto del lavoro,era differente: indicava quegli operai che la tradizione novecentesca fordista aveva ridotto ad automi senz’anima.

Oppure di hippies e di giovani che non volevano integrarsi magari avendo letto ” il diritto all’ozio” di Paul Lafarge,genero di Karl Marx.

Gli operai erano avversati da tutti,PCI e sindacati compresi, perché considerati lavoratori poco credibili,scansafatiche, assenteisti.

Al massimo,avanguardie massimaliste legate all’attività del ribellismo operaio frutto dell’autunno caldo .

Oggi la massa della Great Resignation invece conduce ad un malessere generazionale che coincide con vuoto esistenziale,mancanza di motivazioni, rifiuto dell’ingranaggio del carrierismo.

La domanda è la solita,retorica e banale: sono giovani che non hanno bisogno di mangiare.. che sono privilegiati rispetto ai loro coetanei che rischiano la morte in mare per un lavoro, oppure sono quelli che hanno capito che il lavoro buono è quello che realizza se stessi come persone.?

(Sembra comunque che anche i loro capi,i vari direttori, i manager abbiano compreso che non basta monetizzare il tempo,bisogna viverlo).

Oppure, e si può andare all’infinito, sono un ceto medio così proletarizzato da non poterne più di un lavoro qualsiasi, che tende a fare proprio il binomio del pane e delle rose?

Naturalmente trattasi di giovani in genere laureati,diplomati che rifiutano secondo me una cosa semplicissima: lo sfruttamento finalizzato solo al profitto.

Posso sbagliarmi,ma il Charlot dei Tempi moderni non abita più qui.

Non siamo nemmeno al “giro,vedo gente” di Ecce Bombo..

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