Brano tratto da la Guerra dei caporali nazifascisti e book completamente gratuito dall’11 novembre al 15, di Pierluigi Raccagni
Mentre le truppe tedesche avevano raggiunto tutti i porti della Manica restava disponibile per il reimbarco del corpo di spedizione britannico solo il porto di Dunkerque: Hitler fece il primo errore strategico della guerra.
Il quartier generale tedesco impartì l’ordine di sospendere l’avanzata. Difficile capirne le ragioni militari, sta poco in piedi la tesi di concedere a Göring la fase finale della distruzione degli Alleati, difficile compren- dere il fatto che le truppe si sarebbero impantanate nel fango delle Fiandre.
Hitler e Gerd Von Rundstedt sostenevano che l’esercito era battuto, l’importante era dunque scatenare una nuova offensiva dalla Maginot alla Somme.
Von Brauchitsch e Keitel erano invece favorevoli a non interrompere la corsa vittoriosa verso Dunkerque.
Hitler all’uscita del consiglio di guerra il 24 maggio, con enorme sorpresa di tutti i presenti, si mise a parlare in termini positivi dell’Impero britannico, e dell’utilità della sua esistenza. Si mostrò entusiasta dell’opera di civiltà svolta dalla Gran Bretagna in tutto il mondo. Quindi paragonò l’impero britannico alla chiesa cattolica, giudicandoli entrambi due degli elementi indispensabili della stabilità generale.
Insomma Hitler voleva dimostrare la sua buona volontà di pace verso l’Inghilterra.
La generosità del Piccolo Caporale era mal riposta: le truppe alleate scampate alla travolgente avanzata tedesca e concentrate a Dunkerque furono sottoposte al martellante bombardamento di Göring.
Comunque sotto i bombardamenti terrorizzanti di Göring, a partire dal 26 maggio, 40 cacciatorpediniere inglesi, francesi, belghe e olandesi appoggiate da 900 mezzi privati di pescatori, di proprietari di mezzi da crociera, traghettarono le truppe intrappolate sulle coste sicure della Gran Bretagna.
Il 4 giugno 350.000 uomini furono portati in salvo.
Dunkerque fu un episodio che favorì gli alleati più dal punto di vista psicologico che altro.
I costi umani dell’evacuazione furono elevati, la Francia era in ginocchio perché fra il 5 giugno e il 9 giugno lungo la linea del fiume Somme e Aisne per Weygand fu un disastro.
La Wehrmacht disponeva di 143 divisioni, 10 delle quali corazzate, gli Stukas erano padroni dell’aria.
La disparità fra gli eserciti era troppo grande, anche se i francesi in alcuni punti combatterono con coraggio.
L’11 giugno cadde Reims.
Il governo francese fu costretto ad abbandonare Parigi mentre file di profughi aumentarono il caos che regnava fra le fila dell’esercito fran- cese.
Il giorno 14 Parigi veniva occupata, il 16 giugno a Verdun continuava una debole resistenza che presto venne stroncata.
Paul Reynuad rassegnò le dimissioni.
Il maresciallo Philippe Pétain chiese un armistizio.
Agnés Humbert in “Résistance. Parigi, 1940-1941, La sfida di una donna all’occupazione tedesca”, ricorda che vi era un inestricabile ammasso di uomini e mezzi e che il fuggi fuggi era così universale che pure un generale francese cercava di farsi largo scendendo dall’auto e chiedendo in modo patetico che gli facessero strada.
“Ma via, lasciatemi passare, devo passare (…) È necessario che io passi”.
Fra madri che avevano perduto i propri bambini nel trambusto e il panico generale, Agnese sentì che la Francia aveva chiesto l’armistizio. “Gli uomini intorno a me piangevano in silenzio.”
Come ci ricorda Robert O. Paxton: “chiunque abbia vissuto la disfatta del maggio-giugno 1940 non si è mai ripreso del tutto dallo choc. Per i francesi, convinti di giocare un ruolo importante nel mondo, le sei settimane in cui vennero sconfitti dalle armate tedesche costituirono un trauma sconvolgente (…) nessuno aveva immaginato che le armate potessero arrivare ai Pirenei in solo sei settimane (…)”.
Cfr. Robert O. Paxton, Vichy, Milano 1999, pag.31
La disfatta francese fece di Hitler il più grande condottiero teutonico dai tempi di Federico il Grande, gli storici francesi, però si sono sempre chiesti perché tanta arrendevolezza di fronte ai panzer tedeschi da parte dei propri concittadini.
Al di là delle cause storico-militari, il crollo francese è riscontrabile nello stato d’animo dei suoi abitanti divisi di fronte all’uragano di Hitler.
Il nazionalismo, la grandeur, la patria, si sciolsero come neve al sole.
Il governo collaborazionista di Vichy, con la sua politica reazionaria e con il suo avallo allo sterminio degli ebrei, rimane una vergogna per quella Francia democratica e libera che allora si rivolse al Generale De Gaulle.
“C’era dunque una specie di tacito accordo tra la speranza di Hitler in un armistizio ottenuto con poche perdite e il desiderio dei francesi di un presto ritorno ad una vita ordinaria: l’armistizio poggiava su questo interesse comune. La collaborazione… diceva che il governo francese avrebbe assistito le autorità germaniche nell’esercizio “dei diritti della potenza occupante” (…)
Una parola fatale “collaboration”, un termine banale per indicare che si lavora insieme e che dopo quattro anni di occupazione sarebbe diven- tato sinonimo di alto tradimento. Per il bisogno di fare ritorno a una vita normale nelle forme più elementari (ritrovare la propria casa, il proprio lavoro) molti francesi si avviarono sul sentiero della complicità quotidiana, che a poco a poco li condusse ad assistere attivamente i tedeschi in azioni che nell’estate del 1940 erano impensabili.
Distribuirea posta, riparare i ponti, organizzare l’insegnamento, sistemare i rifugiati, tutto ciò che serviva a riportare la Francia alla normalità e all’ordine rispondeva al patto concluso tacitamente coi tedeschi: sottrarre la Francia alla guerra, lasciandola socialmente intatta e in grado di rivolgere all’interno le proprie risorse”.
Cfr. Robert O. Paxton, op. cit. pag. 43

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