Brano tratto da 1939 -1945 il racconto della guerra giusta, di Pierluigi Raccagni completamente gratuito da oggi al 14 giugno

Un mese prima del 10 giugno del 1940, alle cinque del mattino, mentre i carri armati tedeschi stavano entrando nei Paesi Bassi, Mussolini ricevette una lettera da Hitler, che lo invita ad entrare in guerra per il bene del popolo italiano.
Hitler scrisse lettere brevi, ma feconde di morte e distruzione a Mussolini, il 7, il 18 e il 25 maggio.
Il Führer era entusiasta dello svolgimento della campagna di Francia e voleva che anche l’Italia entrasse nel conflitto, anche se ai generali tedeschi importava poco.
Mussolini non vedeva l’ora di fare la guerra in qualche modo.
Era dal primo settembre del 1939 che il Duce si tormentava a proposito della guerra, era dal 18 marzo del 1940 che al Brennero aveva assicurato a Hitler il suo intervento e ora che Hitler lo invitava con entusiasmo nazional-socialista non poteva più tirarsi indietro.
La preparazione psicologica, secondo il regime fascista, c’era già stata a sufficienza.
In aprile si erano svolte manifestazioni antibritanniche organizzate dai Giovani universitari fascisti, la polizia e l’OVRA segnalarono che nell’opinione pubblica si era diffuso il timore di entrare tardi nel conflitto e di non trovare più nessun bottino da spartirsi.
Gli italiani in massa, diceva Mussolini, erano ormai pronti per la gran festa del fascismo.
“Questa è una cosa che ci fa piacere perché dimostra che la stoffa della quale è formato il popolo italiano è solida”, dixit il Duce.
Durante il mese di maggio Roosevelt gli aveva scritto quattro volte pre- gandolo di desistere dall’entrare in guerra, assicurandogli anche l’ap- poggio degli Stati Uniti alle rivendicazioni italiane nei confronti della Francia e dell’Inghilterra.
Il 16 maggio Churchill gli aveva scritto che voleva evitare la guerra con l’Italia.
Ciano sull’argomento parlava a vanvera, il maresciallo Badoglio nel colloquio del 26 maggio, ricordando l’assoluta impreparazione militare del paese fece notare al Duce: “Non abbiamo nemmeno il numero suf- ficiente di camicie per tutti i soldati! È un suicidio”.

Il Re, che comprendeva che il fascismo avrebbe portato alla rovina la monarchia, degli italiani si curava poco; partorì allora due pillole di saggezza a scoppio ritardato: “Si illudono coloro che parlano di guerra breve e facile.
Ci sono ancora molte incognite e l’orizzonte è molto diverso da quello del maggio del 1915”.
In fondo è un momento di gloria inaudito per il maestro elementare di Romagna, ex socialista rivoluzionario.
In quei giorni Mussolini si lasciò andare a confidenze storico-esisten- ziali, di cui si pentirà amaramente qualche anno dopo.
Si vantava che “i tenori e i bassi profondi” della politica democratica internazionale erano venuti tutti, da Chamberlain a Daladier e Roose- velt, a leccare le zampe del plebeo dittatore italiano.
“Molto lustrato da questi signori il mio orgoglio, ma non vi perdetti la testa”, disse il Duce.
Insomma il Caporale di Romagna era arcisicuro che mai come in quel momento aveva “la perfetta consapevolezza delle responsabilità verso i morti e anche verso i vivi”.
La convinzione di essere nel giusto, confidò Mussolini, gli dava tran- quillità. ”La guerra non l’ho dichiarata io, tutto il mondo lo sa e sa anche tutto quanto ho fatto per evitarla: appunto per questo sento più impellente la necessità di parteciparvi, ora che la vittoria si offre a portata di mano”.
Come si vede Mussolini era sicuro che la guerra sarebbe terminata en- tro pochi mesi, la frase “la guerra sarà breve e io ho bisogno di un certo numero di morti per sedermi al tavolo della pace”, è la più sincera delle affermazioni del caporale fascista.

  1. 10 GIUGNO

La macchina della propaganda si mise in moto.
Tutte le corporazioni del paese fecero a gara per esprimere al Duce la loro volontà guerriera.

L’entrata in guerra fu annunciata per il 5 giugno, poi Hitler per ragioni militari lo convinse a spostare la data al 10 giugno, per non dare vantaggio all’aviazione francese, che tentava disperatamente di fermare i Panzer tedeschi.
Secondo Ciano “Mussolini è contento come non mai di comandare la sua nazione in armi”.
Facendo infuriare il Re, il Duce aveva assunto il comando di tutte le forze armate.
Il 10 giugno il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano comunicò il testo della dichiarazione di guerra a André François-Poncet, ambasciatore di Francia.
L’ambasciatore disse a Ciano: “I tedeschi sono padroni duri, non vi fate ammazzare”, dimostrando che i francesi non si aspettavano un simile trattamento da parte italiana.
Poco dopo sarà la volta dell’ambasciatore della Gran Bretagna Percy Loraine, che non batté ciglio.
Questo accadde alle 16:30.
Alle 18:00 Mussolini dal balcone di Piazza Venezia, davanti ad una mol- titudine mobilitata dal partito fascista, entrò finalmente nella storia.
La vetrata si aprì puntuale. Il Duce apparve in divisa nera col berretto a visiera, le spalline e il cinturone. Prima ancora che il silenzio della folla fosse assoluto, con voce bassa e profonda pronunciò quello che rimane il discorso più tragico di tutta la storia italiana contemporanea “Combattenti di terra, di mare e dell’aria, camicie nere della rivolu- zione e delle legioni, uomini e donne d’Italia, dell’Impero e del regno d’Albania ascoltate!
Un’ora segnata dal destino batte nel cielo della nostra patria, la dichia- razione di guerra è già stata consegnata agli ambasciatori di Gran Bre- tagna e Francia.
Scendiamo in campo contro le democrazie plutocratiche e reazionarie dell’occidente, che in ogni tempo hanno ostacolato la marcia e spesso insidiato l’esistenza medesima del popolo italiano.
La parola d’ordine è una sola categorica e impegnativa per tutti: essa già trasvola e accende i cuori dalle Alpi all’Oceano indiano: Vincere!

Popolo italiano! Corri alle armi e dimostra la tua tenacia, il tuo coraggio, il tuo valore!”
Cfr. Enzo Collotti, La seconda guerra mondiale, collana diretta da Massimo L. Salvadori, Torino 1983, pagg. 90, 91

Le acclamazioni furono entusiastiche e prevedibili come in un’orgia di ferocia e di rancore a distanza.
Una parte della folla era ovviamente incitata dalla messinscena drammatica e dalla presenza fisica delle milizie fasciste.
Fu uno spettacolo macabro, manipolato, il consenso parolaio e vociante ben presto lasciò il posto alla tristezza.
Scrive Giorgio Bocca: “La gente ascolta in silenzio, qua e là gruppi di plaudatores cercano di accendere l’entusiasmo bellicoso, ma la preoc- cupazione prevale, il silenzio si rinchiude sui loro evviva.”
Cfr. Giorgio Bocca, Storia d’Italia nella guerra fascista, 1940-1943, Milano 1997, pag.143