“La lettura “del Corriere della Sera di Pasqua riportava un bellissimo servizio su Philip Roth, uno dei romanzieri statunitensi più discussi e celebrati del Novecento morto nel 2018 ( Pastorale americana il suo capolavoro).
A tutta pagina trovavi un titolo con la dicitura ” sono chi non fingo di essere” che certamente comporta riflessioni su se stessi e il mondo.
Quello della rappresentazione, infatti, sul palcoscenico dell’esistenza è materia intimamente filosofica, che compromette l’ottimismo teoretico sulla possibilità di una vita autentica.
La finzione, stando alle indicazioni di Roth, riguarda la contraddizione fra quello che si è, e quello che si vuol far apparire di essere.
Non sempre questo avviene per malcelata malafede e ipocrisia.
E’ facile, infatti, riscontrare che la timidezza si nasconde dietro l’impeto del coraggio, la paura dietro il paravento dell’incoscienza, la dolcezza e la generosità riposano all’ombra di affollate solitudini, depressioni angosciose coabitano con egoismi mai sopiti: è il genere umano bellezza, direbbe il realismo di maniera ,è il regno dell’imperfezione nella valle di lacrime della quotidianità.
Solo il Cristo appena risorto poteva dire, secondo la tradizione cristiana, ” io sono colui che è”, non avendo bisogno di esistere nel divenire, nel transeunte, in ciò che c’è e un giorno non ci sarà più.
Troppo difficile per me e credo per tutti vivere in questa angoscia, in questa duplicazione dell’autocoscienza, in questo tribunale della ragione che non fa sconti a se stessi, nè prende scorciatoie rassicuranti.
E’ proprio F. Nietzsche a ricordarci che solo chi” ha il caos dentro danza fra le stelle” ed è proprio la filosofia a cercare in tutti i modi di oltrepassare la vita inautentica a costo di convivere con il dolore.
Proprio dalla consapevolezza che la vita è tragica nasce la speranza e nasce la consapevolezza dei propri limiti, laicamente o religiosamente:il vero e proprio rompicapo nella vita siamo noi stessi.
Così, per tornare ad essere se stessi, forse bisogna ( e chi lo sa?) accettare il dolore come” fosse il sale della terra”.
In questo senso la nostra e l’altrui sofferenza non hanno bisogno di infingimenti.
L’autoinganno verso se stessi,invece,chiude il discorso su una raggiungibile verità.
La finzione in questo caso non è il necessario nascondimento del sopravvivere al dolore, è pura menzogna.
Che solo gli dei sapranno perdonare. Forse.

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