1943 L’ARRESTO

La mattina del 25 luglio il Duce uscì da villa Torlonia come se nulla fosse successo. La nottata del golpe era passata, e alle nove Mussolini era già al lavoro a Palazzo Venezia.

Lavorò scartabellando dispacci militari, lesse i giornali del mattino, dette a tutti la sensazione di essere un uomo che voleva rimanere in carica, altro che prepensionamento forzoso.

Grandi, al contrario, era preoccupato, aveva saputo che il re aveva nominato capo del governo il maresciallo Badoglio: per lui manco un posto nel nuovo esecutivo?

Il capo della rivolta voleva farsi ricevere dal re, per riferire della notte precedente, ma questi si negò.

Ignorava che De Cesare, segretario di Mussolini, aveva telefonato ad Acquarone per chiedere che Mussolini fosse ricevuto in udienza dal re nel pomeriggio. Il colloquio venne accordato per le 17,00.

La partita a scacchi era in movimento: da una parte Vittorio Emanuele, il generale Ambrosio e Badoglio. Dall’altra parte Mussolini, Scorza e Galbiati: monarchici liberali contro fascisti, una volta fratelli di sangue, ora acerrimi nemici.

I preparativi per far la festa a Mussolini erano in corso, l’esercito era stato avvisato, il re aveva già predisposto per il Duce, dopo il colloquio, il suo fermo, per evitare che elementi estremisti, Galbiati e la milizia presumibilmente, potessero fomentare disordini. E poi gli antifascisti, aveva detto il re avrebbero potuto mettere a repentaglio la vita del Duce.

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Mussolini tornò a Villa Torlonia alle 15, la moglie Rachele, donna saggia, gli disse di non andare dal Vittorio Emanuele perché tutti erano pronti a tradirlo.

Mussolini, “anima candida”, non sospettò di nulla.

Era convinto che Sua Maestà gli avrebbe dimostrato ancora fiducia e amicizia, avrebbe sì delegato alcuni poteri, ma non avrebbe sconfessato la guerra e l’impegno preso coi tedeschi, sottoscritto anche dai Savoia.

Alle cinque la grossa Alfa Romeo entrò a Villa Savoia.

Cinquanta carabinieri erano appostati nei giardini, l’ambulanza sulla quale, dopo il suo arresto, l’ex capo del governo doveva essere tradotto, era parcheggiata di fianco alla villa del re.

L’azione fu affidata ai capitani Vigneri, Aversa e Marzano.

Il re, che attendeva Mussolini al sommo della scalinata, era in divisa, Mussolini in borghese.

Del colloquio fra il Duce e il re non si seppe mai nulla di ufficiale.

Secondo quello che scrisse a posteriori Mussolini nella sua Opera Omnia, il Savoia era in uno stato di grande agitazione.

Il re, dopo averlo fatto accomodare lasciando la porta socchiusa affinchè Puntoni, aiutante di campo, potesse intervenire pistola alla mano, in caso di emergenza, spiattellò in faccia all’uomo della Provvidenza tutto il disappunto per l’ultimo anno di guerra.

Gli ricordò che era l’uomo più odiato d’Italia, che i soldati non volevano più battersi, che gli alpini cantavano una canzone i cui versi recitavano che non volevano più battersi per Mussolini, che aveva perso nel voto del Gran Consiglio, che non poteva contare più su nessuno tranne lui, che per la sua incolumità era meglio si facesse da parte, visto che in sua vece aveva già nominato il maresciallo Badoglio.

Sembra che Mussolini in modo pacato abbia detto che era una decisione di una gravità estrema che favoriva l’asse Churchill – Stalin e che faceva gli auguri al suo successo

Il re, poi, disse di volergli bene, di averlo sempre difeso, ma lo pregava di farsi da parte, così secondo la testimonianza di Puntoni.

Il re, che aveva organizzato la trappola, dimostrò fino in fondo quanto fossero false le sue parole.

All’uscita dalla villa, il capitano Vigneri si avvicinò al Duce, dicendogli che aveva avuto l’ordine di assicurargli protezione, lo caricò sull’ambulanza insieme a De Cesare e lo portò a tutta velocità alla caserma Podgora di via Quintino Sella, quindi alla caserma Pastrengo in via Legnano, dove il Duce trascorse la notte in una cella.

1943 LA FESTA

Il rumore per le strade cominciò a tarda sera.

Le persiane venivano spalancate, canti si sovrapponevano l’un l’altro, le luci si accendevano nelle case, il frastuono aumentava di minuto in minuto.

“Via Veneto era gremita, ovunque si formavano capannelli, i marciapiedi ne erano ingombri, giacchette bianche o grigie che si confondevano e ognuno avanzava una diversa ipotesi: “E’ stato messo in minoranza” E’partito per la Rocca delle caminate,” Il re ha adunato il Consiglio della Corona”.

Cfr. Corrado Augias, op.cit.pag.182

Fu la radio, il social network universale di allora, a dare il via alla mobilitazione di massa.

Durante la trasmissione di un programma musicale la musica si era interrotta all’improvviso.

Al lunghissimo silenzio che ne seguì subentrò il cinguettare dell’uccellino, quindi un “Attenzione, attenzione”.

Poi si udì la voce dell’annunciatore Giambattista Arista che pronunciò le seguenti parole:

“Sua Maestà il re e Imperatore ha accettato le dimissioni dalla carica di Capo del governo, Primo ministro, segretario di stato, presentate da sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini ed ha nominato Capo

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del governo, primo Ministro segretario di stato, sua Eccellenza il maresciallo d’Italia Pietro Badoglio”.

Seguivano due proclami alla nazione, il primo firmato da Vittorio Emanuele e controfirmato da Badoglio, il secondo firmato dal maresciallo Pietro Badoglio.

Nel primo, il re assumeva il comando di tutte le forze armate, nel secondo Badoglio, “per ordine di sua Maestà il re e Imperatore”, assumeva il Governo militare del paese con pieni poteri, sottolineando che la guerra continuava, frase che sfuggì alla massa degli ascoltatori.

Il contenuto dei proclami non era farina del sacco del re e di Badoglio, ma di Vittorio Emanuele Orlando, ministro liberale prefascista appartenente a quella classe dirigente che il re aveva chiamato “revenants”, quando stava preparando il colpo di stato con Badoglio.

Il freddo linguaggio burocratico dei comunicati alle 22,45 del 25 luglio cambiò la storia d’Italia, portando con sé lutti, guerra civile, massacri che, nell’immaginario collettivo, sono rimasti ricordi vivissimi, che le generazioni si sono tramandati di padre in figlio.

Ma in quella calda sera d’estate il popolo in modo spontaneo associò la fine del fascismo con la fine della guerra.

“La gente scendeva in piazza naturalmente, tra la sorpresa e il giubilo. Spinta dall’urgenza psicologica di confronto e di conferme.La notizia, affidata a due scarni comunicati redatti in linguaggio burocratico e trasmessi alla radio alle 22, 45, aveva una forza dirompente e scuoteva la coscienza collettiva per inaugurare una forma di partecipazione completamente diversa da quella coatta delle adunate del regime.Le strade si riempivano di rumore, i crocchi si moltiplicavano e diventavano assembramenti, gli assembramenti cortei (…) le energie soffocate dall’atmosfera di guerra e in cui la comunità, per tanto tempo compressa e divisa dall’emergenza ritrovava un’identità di gruppo e il gusto della solidarietà, come avrebbe scritto Pietro Calamandrei con un’associazione storica ardita, ma suggestiva:

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ci siamo ritrovati (…). In questa prima settimana è corso per l’Italia un brivido simile a quello del Risorgimento, quando se ne andavano i re stranieri e il popolo scendeva nelle piazze e tutti cantavano e si abbracciavano…”.

Cfr.Gianni Oliva, I vinti e i liberati, Milano 1998, pag.14

Il vento di libertà, il fatto di essere vivi e felici per un giorno, durò troppo poco.Le ragioni di Badoglio e della Corona di preservare l’Italia dall’invasione tedesca, facendo finta di continuare la guerra con la Germania di Hitler,la paura dell’antifascismo di matrice comunista e socialista, il timore del ritorno dei fascisti, fecero sì che la festa si tramutasse in una dura repressione militare che non risparmiò gli operai delle Officine Meccaniche in sciopero a Reggio Emilia, sette morti, e una dimostrazione popolare a Bari, quindici morti, tanto per citare gli episodi più significativi.

La festa del 25 luglio nel giro di poche ore si era tramutata in uno stato di repressione che vietava quelle libertà che si pensava fossero ripristinate dopo la caduta del fascismo.

Erano vietati gli assembramenti. La forza pubblica e l’esercito avevano ricevuto l’ordine di sparare sulla folla che dimostrava, i poteri civili passarono ai militari che proclamarono il coprifuoco, era vietata l’apertura dei locali pubblici dopo una certa ora, era vietata l’ affissione di manifesti, la circolazione di veicoli privati.La caccia al fascista, che aveva causato disordini soprattutto a Milano,Genova, Torino, non poteva essere fermata, ma nel contempo gli operai che a Sesto S. Giovanni uscirono dalle fabbriche cantando l’Internazionale furono dispersi dall’esercito.

I fascisti, invece, non si mossero. Nemmeno i legionari M, divisione corazzata accampati vicino a Roma, fecero almeno la mossa di una simbolica mobilitazione, anzi si dichiararono pronti a passare agli ordini di Sua Maestà.

La motivazione di tale passività fu che il partito era andato in pezzi, in fondo erano stati proprio i gerarchi del Gran Consiglio a sbarazzarsi di Mussolini.

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Lo stesso Mussolini, come abbiamo visto in precedenza, non solo sottovalutò politicamente la gravità della situazione, ma per la prima volta nella sua più che ventennale carriera politica si dimostrò nelle circostanze apatico, confuso, quasi smarrito. Fu lo stesso Mussolini, dopo l’arresto, a scrivere a Badoglio per mettersi a disposizione del suo governo.

Quindi ci fu la corsa dei fascisti a servire il nuovo governo della monarchia.

Si parla ancora oggi degli italiani voltagabbana per eccellenza, di opportunisti pronti a cambiare bandiera in una sola notte buttando via camicia nera e distintivo del partito. Per certi versi è innegabile, ma il fatto è che furono i vertici del partito fascista i primi a manifestare la loro codardia.

Farinacci, il filonazista, fuggì in Germania, Ciano andò a “suicidarsi” da Hitler a Monaco, Scorza, segretario del partito, fu incarcerato e rilasciato, Galbiati, capo della milizia, non venne toccato, Bottai fu arrestato e rilasciato. Grandi ad agosto se ne andò in Spagna.

L’unico fascista che pagò a caro prezzo il ribaltone fu Manlio Morgagni dell’agenzia Stefani che si suicidò con un colpo di pistola nel suo ufficio, lasciando un biglietto con scritto “Mussolini non c’è più. La mia vita non ha più scopo. Viva Mussolini”.

Anche i tedeschi non fecero una grande impressione politica in quella giornata del 25 luglio.

Erano rimasti anche loro confusi, soprattutto dal fatto che a spodestare Mussolini era stato il Gran Consiglio, un organo fascista.

Insomma, Hitler si aspettava un colpo di mano del re, ma non la resa incondizionata dei fascisti “duri e puri alla monarchia”, che aveva sciolto il PNF.

Il tradimento, dunque, avvenne tutto all’interno di quella classe dirigente che aveva portato in guerra l’Italia e che aveva condiviso con Mussolini gli onori di vent’anni di dittatura.

Mussolini, lo ribadiamo, non volle né ordinò alcuna resistenza perché non si fidava di chi lo circondava al vertice.

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