Brano tratto da Pierluigi Raccagni 1939 – 1945 il racconto della guerra giusta vol.II
1943 CENTOMILA GAVETTE DI GHIACCIO
Al momento in cui si scatenò la grande offensiva invernale russa, l’8a Armata italiana era schierata sulla sponda del Don, fra la 2a Armata ungherese e la 3a Armata romena.
Il dislocamento era così concepito procedendo da nord a sud:
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- corpo d’Armata alpino, (divisioni Tridentina, Julia, Cunense e divisione fanteria Vicenza);
- 2° corpo, (divisioni Cosseria e Ravenna); 35° corpo, (divisione Pasubio); 29°corpo, (divisioni Torino, Celere, Sforzesca sotto il comando germanico).
Come abbiamo visto in precedenza, le forze italiane non potevano resistere alla massa d’urto dell’Armata Rossa.
Il mattino dell’11 dicembre i sovietici attaccarono le posizioni tenute dalla divisione Ravenna, il 13 riuscirono a infiltrarsi nella zona di Novaia Kalitva. Ma è il 16 dicembre il giorno in cui arrivò il colpo decisivo perché le truppe sovietiche sbaragliarono le posizioni.
Gli italiani, per quanto dotati di coraggio da vendere, non potevano resistere alle truppe siberiane equipaggiate per il freddo e dotate di armamento pesante.
Con poco carburante e poco cibo le divisioni si ritrovarono in mezzo ad un mare di neve in balia del freddo, del ghiaccio, della fame e delle quattro divisioni corazzate sovietiche.
Non c’era, infatti, da parte italiana un disegno strategico di ritirata: il vuoto creato nello schieramento dell’Asse sul Don da parte dei sovietici, non poteva essere colmato da nessuna divisione.
Così ci fu un “si salvi chi può”, che comportò la lunga marcia verso Occidente, attraverso la pianura russa gelata che durò dal 25 gennaio al 3 marzo del 1943.
L’interminabile fila di uomini semicongelati, con le coperte in testa per proteggersi dal freddo, con i visi incrostati di ghiaccio, tallonati senza sosta dal nemico con mezzi corazzati, sarà l’emblema della fine del fascismo. Sarà l’esempio determinante che un Grosso Caporale con retorica, demagogia, superficialità, criminalità, aveva mandato al massacro 200.000 uomini senza nemmeno sapere cosa fare per ritirarsi.
E poi c’erano i rapporti fra tedeschi e italiani, che in Russia avevano raggiunto il minimo di collaborazione e il massimo di disprezzo reciproco.
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Non bastava più l’efficienza tedesca ad affascinare i soldati italiani sbrindellati e con le scarpe di cartone, la politica di genocidio dei nazisti aveva nauseato gran parte delle truppe e degli ufficiali, anche se qualche battaglione di fascisti aveva avallato la politica del terrore contro i bolscevichi.
I tedeschi prendevano gli italiani per sfaticati, per perdigiorno inconcludenti, per ladri.
Gli italiani dicevano dei tedeschi, “i soliti porci”.
Tutti i peggiori luoghi comuni, insieme alle immancabili mezze verità erano usciti dalle trincee dopo lo sfondamento sovietico delle linee italiane.
E nelle alte sfere le frecciate fra le parti certamente non mancavano.
Quando il ministro degli esteri si recò a Rastenburg incontrando Walter Hewell, uno degli intimi del Fṻhrer, e gli chiese se la nostra Armata avesse avuto molte perdite gli fu risposto: “No, nessuna, perdita, stanno fuggendo”.
“Come voi a Mosca l’anno scorso”, fu la risposta.
“Esattamente”, chiuse Hewell, dimostrando comunque poca fiducia nella vittoria finale.
I sovietici superarono a nord la colonna in ritirata.
Per evitare un ulteriore accerchiamento, gli italiani dovevano camminare con marce di trenta – quaranta chilometri e con temperature che raggiungevano i quaranta gradi sottozero.
I tedeschi, a questo punto, non capivano come mai gli italiani trovassero ospitalità nelle isbe, con la popolazione pronta a dividere il proprio cibo e il proprio letto con quei disgraziati che camminavano per la steppa.
Da questi episodi nacque il mito degli” italiani brava gente” o meglio del “talianski karasciò, italiani buono”.
“Italiani buoni, tedeschi non buoni, morte ai tedeschi. Chi ha fatto la sacca questo ritornello lo conosce bene. Nell’isba del vecchio non c ‘era nulla da mangiare, almeno non vi trovammo nulla.
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Passammo all’isba vicina, la porta ci fu aperta da un bambino.
Entrammo.
Attorno ad un tavolo seduti c’erano cinque o sei tra donne e bambini. Stavano mangiando. Ognuno aveva in mano un cucchiaio di legno e con quello attingeva ad un’unica zuppiera posta in mezzo alla tavola.
Li vedo ancora sbalorditi con i cucchiai a mezz’aria, la zuppiera che fumava sul tavolo, tutti immobili e seduti e noi, il tempo di un attimo strappare loro di mano i cucchiai e cacciarli nella zuppiera e portare alla bocca la broda di patate in piedi fra loro seduti in una mano l’arma e nell’altra il cucchiaio che andava e veniva sbraitando”.
Cfr Egisto Corradi, in Enzo Biagi, La seconda guerra mondiale, op.cit n. 45, pag. 142
Italiani affamati rubavano il pane di bocca ai russi, prima però i soldati dell’Armir avevano diviso con i contadini il magro rancio che passava l’Italia dell’impero fascista: italiani e russi sembravano divisi, in realtà erano uniti dalla fame, dalle privazioni, dalla loro condizione proletaria e da tanta carica umana:
“(…) vi sono anche delle donne. Una prende un piatto, lo riempie di latte e miglio, con un mestolo, dalla zuppiera di tutti, e me lo porge.
Io faccio un passo avanti, mi metto il fucile in spalla e mangio.
Il tempo non esiste più. I soldati russi mi guardano: le donne mi guardano. I bambini mi guardano. Nessuno fiata. C’è solo il rumore del mio cucchiaio nel piatto: E d’ogni mia boccata. Spaziba dico quando ho finito (…) la donna che mi ha dato la minestra è venuta con me come per aprirmi la porta e io le chiedo a gesti di darmi una fava di miele per i miei compagni. La donna mi dà il favo e io esco”.
Cfr.E. Biagi, La seconda guerra mondiale, op.cit. pag146
Quella subumana specie bolscevica, slava, mangiatrice di bambini non era poi così feroce, pensavano molti soldati italiani.
Ma il trattamento ospitale, generoso e per niente violento dei contadini russi, contrastava in modo radicale con l’arroganza e la violenza dei tedeschi, in particolare dei nazisti.
Il Duce, in questo senso, non aveva compreso proprio nulla.
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Convinto che il 24 dicembre le nostre truppe conducessero una battaglia difensiva e che la “situazione fosse solo delicata”, credeva ancora nell’alleato tedesco per ribaltare la situazione.
Ma era un’illusione a cui il Duce del fascismo si attaccava con sempre minor convinzione perché in realtà come vedremo sperava nella pace con la Russia.
Intanto il comando supremo italiano aveva compreso che il comando dell’8a Armata aveva perso il controllo della fanteria e che si era prodotta una spaccatura; i fanti travolti e sul fronte degli alpini tutto tranquillo.
La ritirata, insomma, avvenne nel caos degli ordini e dei contrordini.
La colonna della ritirata, lunga decine di chilometri, era la più netta e limpida rappresentazione della disfatta del fascismo e delle sue velleità criminali.
Basta pensare che ai primi di gennaio a Rikowo si riunirono i resti della Celere che si era difesa accanitamente dagli attacchi sovietici: all’appello mancavano 7.000 uomini e l’80% degli automezzi.
La guerra italiana diventò sofferenza e caos, con le facce dei soldati italiani sfigurate dai trenta gradi sotto zero “una biscia nera nel bianco della steppa”, fatta di fantasmi che pensavano solo a salvare la pelle e che della patria, del fascismo, della lotta al giudaismo e al bolscevismo non sapevano che farsene.
Il corpo d’Armata alpino fu l’ultimo a essere investito dall’offensiva sovietica di dicembre, mentre la Julia rischiò di essere accerchiata dall’offensiva sovietica insieme al 24° corpo d’Armata tedesco, la Cuneense e la Tridentina mantennero invece le loro posizioni.
Il 17 gennaio gli alpini ricevettero dal comando del corpo d’Armata l’ordine di ripiegare su tre linee:la ferrovia che transitava a Rossosch, la valle Olkovatka e la valle Nicolajewka.
Vi erano quattro divisioni che presero la strada della ritirata a cui si unirono 10.000 soldati sbandati tedeschi e ungheresi.
Inutile dire che si trattava di truppe logorate da un mese di combattimenti durissimi coi russi.
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Quello che successe in quella ritirata fa parte della letteratura e della memorialistica mondiale per quanto riguarda soprattutto il corpo degli alpini.
Dopo otto giorni di marcia, nei pressi di Nikolajewka, con il sopraggiungere del 5° reggimento alpini, dopo che l’infinita colonna aveva dovuto fermarsi per i bombardamenti russi, vi fu una battaglia epica.
Gli italiani, alpini e sbandati di tutti i reparti, si lanciarono in una carica temeraria che sbaragliò i russi che lasciarono sul campo oltre due reggimenti e parecchi mezzi corazzati.
Come scrive Giulio Bedeschi in “Centomila gavette di ghiaccio”, (Milano, 1963):
“Tridentina … Tridentina avanti! – gridò con forza selvaggia il generale Reverberi dall’alto del carro armato in movimento indicando con il braccio puntato Nikolajewka.
Non fu lasciato avanzare da solo ; i suoi alpini, riserva disarmata, si gettarono avanti seguendo il carro; generali e soldati raggiunsero i battaglioni che, elettrizzati, fecero massa compatta; il carro non cadde, quell’uomo ritto sul tetto metallico non fu trapassato, Iddio lo lasciò in piedi, gli consentì di guidare gli alpini fin sulle difese nemiche, di travolgere in uno slancio furibondo, di rovesciare i cannoni fumanti, di porre in fuga i russi conquistando Nikolajewka e aprendo il varco entro cui dal costone, come richiamata dalle soglie della morte, irruppe la marea di uomini dilagando nel paese”.
La forza della disperazione, non certo le strategia di guerra, portò la lunga colonna fuori dalla sacca dopo 70 chilometri di marcia.
E in Italia le cose cambiarono radicalmente.
Era terminata l’avventura dell’Armir in Russia che la criminale presunzione di Mussolini aveva mandato al massacro:
all’appello mancavano 84.000 uomini quasi il 40% della forza attiva dell’Armata, 10.000 dei quali, tenuti prigionieri dai sovietici, sarebbero tornati dopo la guerra.
La sconfitta generò l’antifascismo, l’odio verso il regime.
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Altro che barzellette sul Duce la Petacci e i gerarchi, quello che i soldati e gli ufficiali avevano visto in Russia diceva tutto del regime fascista.
I tedeschi soffrivano per la guerra perché ci credevano, oppure perchè l’organizzazione dei comandi almeno li motivava. Gli italiani soffrivano poiché avevano capito che i russi non erano i nemici, e che i nemici forse erano proprio a casa loro.
E che erano stati i fascisti ad averli mandati a morire fra le nevi di un paese lontano migliaia di chilometri.
“Centomila gavette vuote di cibo, colme di ghiaccio, costellavano la neve e segnavano la sorte dei combattenti imprigionati nella sacca presso il Don: avvolti dalla stanchezza e dal freddo gli alpini non capivano quasi più nulla eccetto quell’andare dietro agli altri. I piedi inciampavano uno contro l’altro perché avevano perduto sensibilità, pezzi di ghiaccio ormai, sospinti in avanti dalla disperazione.
(…….) Nelle ore più fonde della notte la marcia divenne agonia;la
fame rabbiosa latrava nel petto senza che gli uomini potessero saziarla, poiché era assurdo pensare di poter mordere le gallette di pietra o esporre le mani al gelo; il sonno e la stanchezza intorpidivano la mente e i muscoli; richiedendo alla volontà un disperato sforzo per reggere e proseguire; e sopra ogni cosa la prolungata esposizione agli estremi rigori del freddo moltiplicava le sofferenze; riunendole in una sola sensazione che sussurrava agli orecchi dei soldati allucinanti presagi di prossima inevitabile fine”
“Il paese era grande, sparso, abbandonato dagli abitanti, le isbe già rigurgitavano di soldati giunti da ore: la marea di disperati lo assaltò, s’affollò intorno alle isbe già ricolme di uomini giacenti (…)
Ma migliaia di altri sopraggiungevano ancora e facendo ressa contro gli usci imploravano, imprecavano, bestemmiavano, piangevano vedendo la porta e la salvezza ad un passo e restandone tuttavia esclusi”. Cfr. Giulio Bedeschi, Centomila gavette di ghiaccio

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