Brano tratto da ” Il racconto della guerra giusta”, La vittoria della democrazia, vol,II, di Pierluigi Raccagni
1943 “25 LUGLIO”: IL GOLPE
La frittata la fece Carlo Scorza, segretario del partito nazionale fascista, che, per ordine del Duce, aveva avuto la brillante idea di organizzare dei comizi nelle varie città italiane per incoraggiare il popolo italiano a resistere all’attacco degli anglo – americani avvenuto in Sicilia.
Scorza, picchiatore blasonato ai tempi della morte di Giovanni Amendola, era uomo duro, ma anche dotato di un opportunismo repellente: davanti al Duce faceva il servo, alle spalle tramava con i congiurati.
Il 16 luglio aveva convocato quelli che dovevano essere gli oratori del “boia chi molla”.
La riunione diventò un’occasione per criticare il Duce da parte di gerarchi che per anni non avevano contato quasi nulla, ma anche il momento della verità per personaggi del calibro di Bottai, Farinacci e Giuriati che aprirono le danze critiche sulla condotta di Mussolini durante la guerra.
Ci voleva, insomma, secondo i gerarchi, una convocazione del Gran Consiglio che non era stato più riunito dal dicembre del 1939.
Mussolini definì quello del 16 luglio un vero e proprio “pronunciamento”.
Poi dopo il 19 luglio, come abbiamo visto, tutta la macchina cospirativa si mise in moto.
A Roma, nelle alte sfere del partito, dell’esercito, della polizia, della stessa Milizia si respirava un’aria di attesa, qualcosa doveva accadere perché le cose non potevano andare avanti nell’apatia di una sconfitta annunciata.
E a questo punto entrò in scena Dino Grandi che sarà il leader della cacciata del Duce.
Dino Grandi era stato uno dei capi della cosiddetta rivoluzione fascista, era ritenuto una delle grandi menti del fascismo, era stato ministro degli esteri, Ambasciatore a Londra. Come guardasigilli andava dal re due volte la settimana, con Vittorio Emanuele III si confidava in termini anti – mussoliniani da tempo, il 3 giugno proprio il re gli aveva suggerito di trovare una soluzione costituzionale contro Mussolini.
Il 20 luglio Grandi da Bologna arrivò a Roma. Invitato da Acquarone ministro della Real Casa, per mezzo di un amico comune, ad un colloquio, preferì disertare la riunione affermando di aver spedito il famoso odg a Puntoni, aiutante di campo del re.
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Grandi teneva nel cassetto l’ordine del giorno già da due anni, ma ora diventava un documento sul quale doveva pronunciarsi il Gran Consiglio del fascismo.
Dopo aver avuto contatti con Bottai, Federzoni, Scorza, Farinacci, ai quali disvelò le sue intenzioni, nel pomeriggio del 22 luglio fu ricevuto da Mussolini.
Grandi che non voleva essere un golpista da strapazzo aveva in mente un intervento legalitario, sofisticato, democratico, per usare un paradosso.
Si trattava di liquidare Mussolini facendo questo ragionamento: il re nel ‘22 aveva convocato a Roma Mussolini per conferirgli la carica di primo ministro con il voto del parlamento.
Ora si trattava di mettere in minoranza Mussolini nel Gran Consiglio per permettere al re di sfiduciarlo creando un nuovo gabinetto.
Si trattava per Grandi di un normale avvicendamento politico, il fascista Grandi scopriva il valore di una monarchia costituzionale alla faccia dell’assassinio di Giacomo Matteotti e di vent’anni di dittatura.
“(…) il 22 pomeriggio andai da Mussolini, per chiedere udienza ricorsi ad un duplice pretesto … arrivai a Palazzo Venezia alle cinque.
Secondo Grandi il colloquio fu, in un certo senso, patetico. Mussolini gli parve depresso.
Lo era da molto, un uomo turbato.
Quindi entra nel merito della sua visita e tenta di far intendere al Duce la sua tesi: gli Alleati fanno di colpa di tutto al fascismo, non alla nazione, perciò non è il caso di passare la mano a chi sia in grado di trattare la pace con loro, se con i fascisti non decideranno mai d’incontrarsi?
Lui mi lasciò parlare per circa quaranta minuti, poi intervenne pacatamente: “Vedi Grandi, mi disse, non avresti torto se pensassi che la guerra è persa, Invece non lo è. Esiste un’arma segreta tedesca che verrà usata fra pochissimo tempo. Capovolgerà le sorti del conflitto”
Cfr. Silvio Bertoldi, Colpo di stato, op.cit. pp.126,127
Alla fine del colloquio Mussolini rimandò la questione al Gran Consiglio in modo molto pacato, dicendo a Grandi di presentare in quella sede il suo odg.
“Poi decideremo”.
Del colpo di stato, a questo punto, era al corrente pure Mussolini e la cosa può sembrare paradossale.
Le interpretazioni del perchè il Duce non scelse la linea dura e del perché non fece intervenire subito la Milizia o addirittura i tedeschi sono varie e tutte plausibili.
La più verosimile è che Mussolini sperava ancora nel re che, come lui stesso disse, si era sempre trovato al suo fianco nei momenti critici.
Vittorio Emanuele invece aveva già deciso, aveva già avallato la sostituzione del Duce con il Maresciallo Badoglio.
E poi non bisogna mai dimenticare che tra i dissidenti primeggiava anche Galeazzo Ciano che nel 1930 aveva sposato Edda Mussolini.
Ciano, descritto dagli storici come uomo intelligente e raffinato, nonché mondano, dissoluto e filo – inglese da sempre, rimproverato da Mussolini per le sue frivolezze non amava Grandi, ma lo stimava come uomo politico. Quindi, il giorno precedente il Gran Consiglio disse a Grandi che era dalla sua parte.
Non fu una presa di posizione da poco. Benchè detestato e invidiato dagli altri gerarchi, era pur sempre il genero del Duce: la sua militanza contro Mussolini non lasciava dubbi sull’isolamento del Duce.
“Conosco tutte le barzellette sul mio conto, quello che si dice sulla mia vita privata (…).
Mi auguro solamente che un giorno si sappia che, nei limiti delle mie possibilità, ho tentato che l’Italia restasse lontana dalla guerra, e che qualcuno possa testimoniare che ho fatto tutto quel che era possibile per far finire la guerra”
Cfr.Melton. S. Davis, Chi difende Roma, Milano 1973, pag 36.
Così parlò Galeazzo Ciano.
1943 IL GRAN CONSIGLIO
Doveva essere una riunione “confidenziale” quella del Gran Consiglio, convocato alle 17,00 del 24 luglio.
Il Duce credeva, o faceva finta di credere, che in gioco non ci fosse altro che una prova di forza all’interno del PNF, dove mediocri collaboratori si agitavano nel momento della tempesta.
Per questo scelse il basso profilo: nessun addobbo alle finestre del balcone per annunciare il “concistoro fascista”, nessun moschettiere del Duce di guardia.
Piazza Venezia deserta, perché parecchi romani dopo i bombardamenti del 19 luglio avevano lasciato la città, caldo insopportabile, protocollo di rito: sahariana nera per tutti i 28 membri, Sala del Pappagallo, adiacente alla Sala del Mappamondo, ufficio del capo.
Vi fu il “Saluto al Duce” nel momento in cui Mussolini entrava alle 17,14 preceduto da Navarra, segretario personale, accompagnato da Scorza, segretario del partito.
“A noi” come ai bei tempi risuonò fra i presenti.
Mussolini, seduto al centro dei tavoli disposti a ferro di cavallo, ordinò a Scorza di fare l’appello.
Poi cominciarono le danze. Non c’era nemmeno uno stenografo per il verbale, “una cosa nostra nera” era il modo in cui Mussolini intendeva lavare i panni sporchi in casa.
Il Duce cominciò la relazione.
Naturalmente affrontò il tema della “guerra”.
Fra lo stupore generale, il Duce, sempre così battagliero, con la sua efficacia retorica, con la sua tagliente determinazione, fece un discorso molto “prevedibile”, zeppo di giustificazioni sul suo operato.
Intanto disse che lui non aveva chiesto il comando supremo delle forze armate.
Per rafforzare questa singolare manifestazione di fuga dalle proprie responsabilità, presentò una lettera di Badoglio del 3 maggio 1940 che lo invitava ad assumere il comando supremo delle forze armate.
Accusò gli italiani di avere poco spirito guerriero perché agli invasori statunitensi tributavano calorose “accoglienze”, accusò Rommel di non aver seguito i suoi consigli ad El Alamein.
Giacomo Acerbo, ministro delle finanze, scrisse in seguito che la “relazione procedè fiacca, disordinata, contraddittoria…pareva che vagasse in un mondo irreale e che non fosse lui a parlare.”.
In effetti Mussolini insicuro, freddo, arrogante, senza entusiasmo, fu un vero e proprio disastro.
Biasimò la Germania che non aveva compreso l’importanza di evitare lo sbarco in Sicilia, poi, dopo due ore di chiacchiere auto assolutorie, si appoggiò allo schienale della sedia aspettando gli interventi come un atto di sfida.
Presero quindi la parola De Bono, membro più anziano del Gran Consiglio, parte decisiva della marcia su Roma che, più volte interrotto, dichiarò che la colpa non era certo dell’esercito che non aveva seguito gli ordini di Mussolini.
Bottai sottolineò la gravità della situazione e la mancanza di collegamento fra il capo del governo e i collaboratori.
In pratica, sentenziò Bottai, altro maestro di pensiero del fascismo, la relazione di Mussolini era la conferma che il Duce, isolato, non era stato capace né di comandare l’esecutivo, né di farsi ubbidire dallo Stato Maggiore dell’esercito.
L’atmosfera era pronta per l’intervento dell’ingegnere del colpo di stato.
Grandi si alzò e finalmente lesse il suo ordine del giorno già noto alla maggioranza dei presenti.
“il Gran Consiglio dichiara…l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali.
Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinchè Egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere – con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del regno – quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
CfrF.W. Deakin, op. cit, pag.595
Grandi, poi, ne disse al Duce di tutti i colori e ce ne fu per tutti: condannò la dittatura totalitaria, la spietata censura sulla stampa, denunciò la decadenza morale e politica del regime, l’inconsistenza del consiglio dei ministri…, disse che la guerra non era solo impopolare perché l’Italia la stava perdendo, ma perchè ormai si diceva che fosse la guerra di Mussolini, manco del fascismo.
Poi ci fu l’intervento del genero Galeazzo Ciano, che ribadì le sue accuse alla Germania che si era impegnata a non entrare in guerra fino al 1943 – 1944, nel senso che “gli italiani non erano dei traditori, ma dei traditi”.
Farinacci quindi intervenne con la sua mozione che era la copia carbone di quella di Grandi, tranne che per un dettaglio non insignificante: auspicava di vincolarsi ancora di più alla Germania di Hitler.
Dopo una breve pausa fin dopo mezzanotte il Gran Consiglio riprese: i giochi erano fatti; Galbiati, capo della Milizia, parlò a favore del Duce dicendo la cosa più vera e scontata del mondo: l’Italia era entrata in guerra con la Germania perché sicura della vittoria.
Scorza, segretario del partito, che si sera dichiarato d’accordo con Grandi, fu più prudente: il suo intervento fu inutile perché richiamava l’urgenza di radicali riforme all’interno del paese, nel governo e nelle forze armate.
Era la solita concessione ad un rimpasto di governo che era stato già fatto e non aveva portato a nulla.
Parlò anche Alfieri, quindi Mussolini mise in votazione l’odg Grandi che in un silenzio assordante fu approvato con 19 voti a favore e sette contrari. Alle 2,40 del mattino Mussolini uscì dall’aula, Scorza richiamò il “saluto al Duce”, Mussolini rispose con un “Ve ne dispenso”.
1943 L’ARRESTO
La mattina del 25 luglio il Duce uscì da villa Torlonia come se nulla fosse successo. La nottata del golpe era passata, e alle nove Mussolini era già al lavoro a Palazzo Venezia.

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