PIERLUIGI RACCAGNI

1939-1945
Il racconto della
GUERRA GIUSTA
Quando l’antifascismo salvò la civiltà dal Male Assoluto
alla mia famiglia antifascista,
Giovanni e Stefania compresi alla memoria della compagna Patrizia alla memoria della compagna Mariella
LA SVASTICA SULL’EUROPA 1939 – 1942
Una guerra giusta è una bestemmia.
Eppure ci voleva una sporca guerra, una guerra perfida e cattiva, ma- gari con l’uso di una bomba atomica che è pur sempre figlia dell’anti- fascismo per salvare il mondo.
Non è uno slogan, né una facile retorica sulla vittoria della democrazia. “solo la temporanea e insolita alleanza del capitalismo liberale e del co- munismo, che si coalizzarono per autodifesa contro la sfida del fasci- smo, salvò la democrazia, infatti la vittoria sulla Germania hitleriana fu ottenuta, e poteva essere soltanto ottenuta, dall’Armata Rossa.
Eric Hobsbwam, Il secolo breve
E ancora: “(…) si è ormai generalmente d’accordo sul fatto che il teatro bellico decisivo sia stato il fronte orientale, poiché senza la resistenza sovietica è difficile immaginare come il mondo democratico sarebbe riuscito a sconfiggere il nuovo impero tedesco…il grande paradosso della seconda guerra mondiale. Italiana è che la democrazia fu salvata dall’impegno dei comunisti.”
Richard Overy, La strada della vittoria
Armata Rossa e capitalismo, democrazia e comunismo, termini natu- ralmente inconciliabili, addirittura antitetici per come è stato ed è il mondo.
Il mondo, nel suo irrinunciabile bisogno di pace e civiltà è stato salvato dall’antifascismo che ha messo insieme una sorgente di valori che ha determinato la nascita di una nuova era dell’umanità e la sconfitta del Male Assoluto.
Disse Kennedy all’università di Washington il 10 giugno 1963: “…nes- suna nazione nella storia delle battaglie ebbe mai a soffrire più di quanto soffersero i russi nella seconda guerra mondiale.
Almeno venti milioni di persone persero la vita.
Innumerevoli milioni di case e cascinali furono dati alle fiamme sac- cheggiati. Un terzo del territorio (europeo) del paese, comprendenti quasi due terzi delle industrie, venne trasformato in deserto.
La seconda guerra mondiale, è stata una guerra internazionale perché “l’opposizione fra forze fasciste e antifasciste era interna ad ogni so- cietà” (Hobsbwam, Secolo breve).
Winston Churchill, De Gaulle, Stalin, Roosevelt erano una “poltiglia” dal punto di vista ideologico: il loro fronte unito contro Hitler, Musso- lini, il clerico-fascismo, il razzismo, l’ideologia di morte fu vincente.
Scrive sempre Hobsbwam che il “fascismo è guerra”, che il fascismo internazionale portò morte e distruzione in tutto il mondo se si eccettua quei paesi che rimasero neutrali.
Di quegli anni che cambiarono il mondo tanti valori positivi sono an- dati perduti, tanto si è scritto, molto si è cambiato nel novero delle in- terpretazioni.
Non c’è da aggiungere più nulla
Ma poi c’è sempre qualcosa da ricordare, non solo ai più giovani, molte volte ai più vecchi che non hanno vissuto nessuna guerra. La mia gene- razione la guerra l’ha sentita raccontare dai genitori.
E ne porta ancora le tracce.
Queste tracce, o anche cicatrici, non possono essere cancellate.
A 80 anni di distanza si può dire che il mondo in quei sette anni scom- parve.
Scomparve la civiltà, il senso della pietà e dell’appartenenza al genere umano.
Una cosa è rimasta. La guerra dei 55 milioni di morti è stata apocalittica quanto decisiva per le sorti dell’umanità.
La civiltà, la convivenza, la democrazia, il liberalismo e anche la parte positiva del socialismo dei diritti dei lavoratori sono stati salvati da una guerra santa, l’ultima guerra santa e religiosa della storia dell’umanità. Una guerra giusta, antifascista nel senso di un valore assoluto che non può essere scalfito da negazionisti criminali, né da opportunisti di vario colore.
La salvezza del mondo è stata pari alla spietata determinazione dei vin- citori.
7 ANNI, 2174 GIORNI.
Quella guerra coinvolse le popolazioni civili con perdite senza prece- denti, la ferocia dimostrata dagli uomini in quel periodo non ha riscon- tri nella storia della barbarie del genere umano.
Eppure…
Eppure non è raro che Svastiche e SS trovino ancora grande considera- zione in tutta Europa.
E che i cosiddetti populismi si ispirino a Mussolini e Hitler.
In fondo che il nazismo e il comunismo siano stati la stessa cosa ormai è un pensiero ricorrente.
Certo Stalin e il comunismo furono feroci e anche criminali, ma senza i venti milioni di morti dell’Unione Sovietica contro i macellai nazi fasci- sti non ci sarebbe stata democrazia e pace per ottanta anni.
La parte giusta era una sola, e sarà sempre quella degli uomini che si batterono e si battono per la difesa della vita e della democrazia.
LA PREISTORIA DELLA CATASTROFE
Al termine del primo conflitto mondiale nel giugno del 1919 si riunì a Parigi la conferenza degli stati vittoriosi.
Era appena terminata la Grande guerra, la prima guerra non localizzata in ambiti ristretti della storia dell’umanità ed era necessario dare un nuovo assetto al mondo,
Intanto il mondo era cambiato.
La rivoluzione russa del 1917, la proclamazione della Repubblica di Weimar in Germania nel 1918, la nascita del fascismo in Italia nel 1919, avevano dato il via al Secolo breve.
La conferenza di Versailles era diretta dai presidenti del consiglio di quattro stati vincitori: Woodrow Wilson per gli Stati Uniti, Lloyd George per la Gran Bretagna, Georges Clemanceau per la Francia e Vit- torio Emanuele Orlando per l’Italia.
A Versailles cominciò la seconda guerra mondiale, se non nei fatti, al- meno nelle buone intenzioni sulle quali, si sa, sono lastricate le strade dell’inferno.
Per la Germania della Repubblica di Weimar, proclamata il 9 novembre 1918 dopo l’abdicazione del Kaiser, le clausole furono le seguenti:
- La Germania cedeva 73.485 Km quadrati di territorio sui quali vi- veva una popolazione di 7.325.000 abitanti;
- L’Alsazia e la Lorena passavano definitivamente alla Francia così come, temporaneamente, la regione della Saar, con la sponda sini- stra del Reno. Il ritorno della Saar dipendeva da una consultazione da tenersi dopo 15
- Alla Polonia toccavano la Posnania e il “corridoio” cioè una striscia di terra fra la Germania e la Prussia orientale rimasta tedesca; tra il corridoio, la Prussia e il Baltico nasceva lo stato libero di Danzica sotto la tutela della Società delle
- I tedeschi dovevano risarcire i danni bellici, dovevano pagare le spese di
- Veniva abolito lo Stato Maggiore generale, l’esercito veniva limitato a 100.000 effettivi
È ovvio che una pace di questo genere diventava il fuoco sacro per Hit- ler e il suo pangermanesimo che fece di Versailles un alibi per fare la guerra per vent’anni.
Non si creda, però, che la pace di Versailles sia stato solo un argomento di propaganda nazista.
Lo stesso economista Maynard Keynes, che si trovava a Parigi nel 1919, come rappresentante del Ministero del tesoro inglese così descriveva l’atmosfera di quella conferenza: “Un senso di incombente catastrofe sovrastava la frivola scena, la futilità, e piccolezza dell’uomo davanti ai grandi eventi che lo fronteggiavano, il misto di impotenza e irrealtà delle decisioni; leggerezza, cecità, arroganza, grida confuse da fuori, tutti gli elementi della tragedia antica erano presenti”.
I tedeschi erano furibondi.
Quando vennero pubblicate le clausole del Trattato a Berlino il 7 mag- gio furono organizzate manifestazioni perché la Germania rifiutasse le pesanti clausole.
Scheidemann, Cancelliere durante il periodo dell’assemblea di Weimar, esclamò: “perisca la mano che firmerà questo trattato”.
Ebert presidente della Repubblica provvisorio proclamò che le clausole erano “irrealizzabili e intollerabili”.
È vero che la Germania doveva riparare i danni del primo conflitto mondiale, ma non ci fu un tedesco che giustificò le clausole imposte alla Germania vinta.
Lo sapevano tutti: quelle clausole volevano dire, fame, volevano dire odio verso i vincitori, volevano dire preparare la vendetta dei vinti. Così fu, e l’artefice del riscatto tedesco fu un piccolo e insignificante Caporale con il nome di Adolf Hitler.
IL CAPORALE CRIMINALE
Il Male Assoluto, ontologico, che non ha eguali nella brutta condizione della perfettibile e ingannevole esistenza umana, si è incarnato princi- palmente nel nazi-fascismo europeo.
La “banalità del male”, si dice, e in effetti Hanna Arendt aveva visto giusto.
Le ultime rivelazioni su Hitler non fanno che confermare quelle su Erich Eichmann: l’oggettivazione del male, la sua fenomenologia hanno trovato il signore dell’ordine nero nella figura di Adolf Hitler.
È in un ospedale di una cittadina della Pomerania che avvenne il fattac- cio.
Nel 1918 un caporale venne ricoverato con una ferita agli occhi provo- cata da gas.
Quando il nostro Piccolo Caporale seppe della capitolazione della Ger- mania si lasciò andare ad un pianto senza ritegno: “tutto è stato inutile”, singhiozzò Adolf Hitler.
E così continuò: “inutili i sacrifici, inutili i nostri due milioni di morti! E tutto perché una banda di scellerati possa mettere le mani sulla nostra patria!
Dunque tutto è perduto…solo gli imbecilli, i criminali, i bugiardi pos- sono aspettarsi indulgenza dal nemico…”
Adolf Hitler da quel giorno si dedicò alla politica, e il genere umano divenne peggiore.
O forse Hitler non si dedicò mai veramente alla politica, intesa come passione del cuore e della mente.
Era meglio che Adolf Hitler, come lui stesso dichiarò durante la guerra, “girovagasse per l’Italia come pittore sconosciuto”.
Come ci ricorda Joachim Fest, uno dei più autorevoli studiosi del nazi- smo, fino al trentesimo anno di età il giovane Adolf non si sentì affatto attratto dalla politica.
Contrariamente a Lenin, Mussolini, Napoleone che avevano il pathos della politica da sempre, il Führer affermò davanti ai suoi generali, il 23 novembre del 1939, che era diventato uomo politico per una sua lotta interna e che quella della politica fu “la più difficile delle sue decisioni”. La sua originaria grandezza non si può comunque discutere: seppe tra- sformare magicamente il senso di una sconfitta.
Perché il senso di frustrazione di Hitler poi, divenne un senso generale di scoramento quando vennero pubblicate le clausole di Versailles.
L’aspettativa di salvezza del popolo divenne isteria collettiva, le rovine e le macerie di quegli anni terribili che vogliamo raccontare trovarono i loro moventi anche in quelle solitudini di odio, rancore, vendetta con- tro tutto quello che non era stato tedesco, almeno per una volta.
Il Piccolo Caporale, come vedremo, elaborò una Weltanschaung che catturò la pancia o forse anche il cuore dei tedeschi.
La concezione hitleriana del mondo si basava sui seguenti punti:
- Il principio della “lotta eterna” derivante dalle teorie del darvinismo sociale: la lotta del forte con il debole e la selezione naturale che ne è il risultato sono a fondamento dell’esistenza
- In prima posizione, al centro di ogni sentimento la razza o il popolo di appartenenza sono entità sacre, metafisiche. Da questo punto di vista si spiega perché il nazional-socialismo potesse trarre in in- ganno tanti anticapitalisti di sinistra che, detestando i borghesi, in fondo consideravano i fascisti degli eretici del
- Non c’è umanità, non c’è individuo per il nazismo, il socialismo si- gnifica unicamente spietata difesa degli interessi del popolo, del Volk, soprattutto da quelle nazioni o razze considerate
- Il principio della personalità, poi, è l’atto finale del Male Assoluto. La storia è frutto dell’azione di personalità eccezionali, dotate di un genio eccezionale, che sanno plasmare folle inebetite o stupidite dalle frivolezze della vita. La lotta eterna del genio per un mondo a sua immagine e somiglianza conduce alla guerra, padre di tutte le cose, in senso eracliteo (con una distorsione della filosofia di Eraclito o della dialettica di Hegel abominevoli).
- Lo spazio vitale a Est voleva dire non di conquistare un popolo, disse Hitler, ma di conquistare uno spazio adatto all’affermazione del popolo tedesco e al suo affrancamento dalla
Non erano queste, comunque, le conquiste strategiche.
Niente era definitivo per Hitler, perché tutto è sempre in perenne con- flitto e movimento: era questa in sostanza la sua forza e insieme la sua debolezza:
“(…) Hitler addirittura definiva un crimine condurre una guerra per l’acquisto di beni materiali.
Soltanto il movente per lo spazio vitale giustificava il ricorso alle armi, ma nella sua forma pura, la guerra era indipendente anche da esso, non era altro che l’onnipossente legge originaria della vita e della morte e della sottomissione dell’uomo a opera dell’altro, in una parola un eli- minabile atavismo: “la guerra è la cosa più naturale e più comune che vi sia. La guerra è sempre e ovunque. Non esiste principio, non esiste conclusione pacifica. La guerra è vita. Guerra è ogni lotta. La guerra è la condizione originaria”.
Indipendente dalle amicizie, dalle ideologie e dalle momentanee al- leanze, disse una volta ai suoi commensali, non era escluso che in un giorno lontano, quando Mussolini avesse realizzato il suo programma di rimboschimento, si dovesse muovere guerra anche all’Italia.
Cfr. J. Fest, Hitler, Il Führer e il nazismo, Milano1974, pag. 748
Il ritratto storico del Piccolo Caporale, però, non è mai bastato a definire la sua personalità: “L’Hitler visto, o immaginato, da una persona che lo conobbe bene come Hans Frank è l’Hitler del film “noir”, l’Hitler della malavita monacense, un personaggio il cui carattere meschino e cor- rotto è stato in larga parte dimenticato, se non cancellato. Questo Hitler
offre un utile correttivo all’Hitler post bellico, cui è stata attribuita una personalità ancor più grandiosa e potentemente demoniaca per spie- gare la gravità degli orrori lasciati dietro di sé.”
Cfr. Ron Resenbaum, Il mistero Hitler, Milano 1998, pag. 85
IL CAPORALE INVENTORE DEL FASCISMO
Benito Mussolini, ex socialista rivoluzionario, condusse l’Italia verso la dittatura del regime fascista con la marcia su Roma del 28 ottobre del 1922.
“Mussolini… privo di principi amava i tagli netti resi possibili dal brac- cio forte dell’illegalità….
Gli uomini politici stranieri cominciavano ad esternare rispetto per Mussolini come statista di una certa importanza, cercavano perciò di chiudere un occhio su certi aspetti del fascismo come l’assassinio del leader socialista Giacomo Matteotti ( all’assassinio del quale i discorsi di Mussolini certamente contribuirono, anche se forse egli non diede un ordine preciso in tal senso) e la soppressione in nome dell’efficienza e dell’ordine delle libertà personali e civili; di tali aspetti essi constata- vano il miglioramento nei servizi pubblici, ma ignoravano il deteriora- mento dei costumi e della morale. All’avvento di Hitler, Mussolini aveva già un decennio di esperienza nella tecnica della brutalità e nei frutti che essa dava; aveva acquisito sicurezza in patria e rispetto da parte dei governi stranieri”.
Cfr. Peter Calvocoressi, Guy Wint: Storia della seconda guerra mondiale, Mi- lano 1990, pag. 167
LA PIANIFICAZIONE DELL’APOCALISSE
Il Piccolo Caporale diventò Cancelliere il 30 gennaio 1933.
Il presidente della repubblica di Weimar Paul Von Hindenburg, quattro giorni prima aveva dichiarato al capo di Stato Maggiore delle forze armate Kurt Von Hammerstein, rimosso nel 1939 per il suo atteggiamento antinazista, (definì i nazisti porci e delinquenti…), che non aveva nes- suna intenzione di nominare capo del governo quel “caporale au- striaco”.
Parole al vento perché le forze conservatrici e reazionarie vedevano in Hitler il bastione contro il bolscevismo, e il caporale austriaco li ripagò con gli interessi.
Il 3 febbraio in un discorso segreto ai comandanti dell’esercito il Führer rivelò gli obiettivi della sua politica.
All’inizio Hitler parlò seduto al tavolo, poi, preso dall’esaltazione, co- minciò a contorcersi così come era solito fare durante i suoi discorsi di propaganda.
Ecco alcuni stralci del verbale redatto ufficiosamente: “Come nella vita degli individui si impone sempre il più forte e il migliore, così anche nella vita dei popoli.
La forte razza europea, una piccola minoranza, ha assoggettato per se- coli milioni di persone e costruito sulle loro spalle la cultura europea… Come è effettivamente la situazione odierna, dopo la guerra mondiale? Nella Germania del 1918 vigeva la totale autarchia, eppure circa otto milioni di persone erano escluse del tutto dalla produzione….
La terza ragione è l’avvelenamento del mondo a opera del bolscevismo. Per il bolscevismo povertà a basso standard di vita sono l’ideale.
È la concezione del mondo di coloro che, a causa della lunga disoccu- pazione, si sono abituati a non avere bisogni.
È un fatto che gli uomini di razza inferiori debbano essere costretti alla civiltà.
Così questi uomini vorrebbero perseverare in una volontaria inci- viltà….
Come si può dunque salvare la Germania? Come si può eliminare la disoccupazione?
Sono un profeta da quattordici anni e continuo a dire……
L’evoluzione del movimento in Germania sarà diversa da quella del fa- scismo italiano.
Come quello soffocheremo il marxismo.
Ma il nostro rapporto verso l’esercito sarà diverso. Staremo dalla parte dell’esercito e lavoreremo con e per l’esercito.
Non troveranno un altro uomo che si impegni come me con tutte le sue forze per raggiungere lo scopo per la salvezza della Germania.
E quando mi si dice: “il raggiungimento dello scopo è nelle sue mani”, rispondo: “bene allora sfruttiamole”.
Cfr. P. Boschesi, Come scoppiò la seconda guerra mondiale, Milano 1974
“Avevamo un governo democratico e un’economia in crescita, ma la situazione è precipitata nel 1929 con il crollo di Wall Street (…) Ora siamo in piena depressione (…)”.
Per ogni annuncio di lavoro si mette in coda un centinaio di uomini. Basta guardarli in faccia per capire che sono disperati. Non sanno come dare da mangiare ai propri figli. Poi arrivano i nazisti a infondere la speranza e loro si chiedono “Cosa ho da perdere?”
Cfr. Ken Follett, L’Inverno del mondo, Milano 2012, pag. 40
L’ultima cosa che Hitler voleva era un’altra guerra mondiale.
Dopo quello che si è scritto può sembrare un paradosso, ma non lo è. Il suo popolo e i suoi generali erano a dir poco angosciati di fronte ad un nuovo conflitto, come quello della prima guerra mondiale.
Però quel “sentimentalone” di Hitler, così lo chiamava Benito Musso- lini, era un ragazzo tenace e non geniale.
Almeno sul campo della strategia militare. Anche se lui si credeva veramente un genio.
Però, non era nemmeno quell’ignorante e confusionario caporale ple- beo, come pretendeva certa spocchiosa aristocrazia prussiana.
Era un dilettante, d’accordo, ma tali lo saranno anche Churchill, Stalin, Roosevelt.
Era un uomo tenace che aveva studiato l’arte della guerra nei suoi mi- nimi particolari, che aveva una memoria incredibile per ogni compo- nente delle armi, per l’organizzazione delle armate sul territorio.
“Aveva un senso profondamente sottile della sorpresa e un talento ma- gistrale per il lato psicologico della strategia, che elevò a nuove altezze. Molto tempo prima della guerra aveva esposto ai suoi collaboratori come poteva essere eseguito l’audace colpo di mano che poi gli fruttò la conquista della Norvegia, o come i francesi potevano essere snidati per manovra dalla linea Maginot. Egli aveva anche capito, meglio di ogni generale, come le conquiste incruente che precedettero la guerra potessero essere attuate minando preventivamente la capacità di resi- stenza dei paesi che sarebbero stati aggrediti. Nessuno stratega della storia è stato più abile di lui nel far leva sulle debolezze psicologiche degli avversari; e questa nella strategia è l’arte suprema.
Cfr. Basil H. Liddell Hart, Storia di una sconfitta, Milano 200, pagg. 21, 22
Solo che in Hitler il primato della sua politica di sterminio, prevarrà su ogni altra considerazione di carattere strategico con conseguenze nefa- ste per la conduzione della guerra da parte della Germania.
VIENNA
Hitler però cercava pretesti per fondare il suo Reich millenario. E li cer- cava in tutti i modi.
Intanto doveva ritrovare lo spirito di un Reich che poteva esserci solo fra coloro i quali non erano ebrei, o meglio erano ariani, o meglio au- stro-tedeschi.
Così in successione vennero Vienna, Monaco, Praga e quindi Varsavia. Nel 1938 correvano le voci sull’impreparazione dei tedeschi alla guerra, l’espansionismo violento della Germania doveva prevedere così delle tappe intermedie.
Una di queste fu Vienna e l’invasione dell’Austria.
In Austria aveva governato dal 1932 al 1934 Engelbert Dollfuss che il 12 febbraio del 1934 sferrò un attacco micidiale contro i quartieri operai di Vienna massacrando donne, bambini e socialdemocratici.
Il massacro fascista era stato attuato dall’esercito distruggendo di fatto la democrazia in Austria.
Ma Dollfuss, cristiano-fascista, amico di Mussolini, il 25 giugno del 1934 cadde sotto il piombo di un contingente delle SS austriache.
In quel caso Hitler era stato sul punto di proclamare” l’annessione” quando il colpo di stato fallì.
Ma nel 1938 l’ex imbianchino fu favorito inconsapevolmente nei suoi intenti criminosi dal cancelliere austriaco Kurt Von Schuschnigg, un fa- scista non germanofilo, che promulgando un decreto per un plebiscito con lo scopo di rafforzare la sua posizione nell’affrontare le violenze dei nazisti austriaci, di fatto forzò la mano al Führer.
Hitler prima di invadere l’Austria si rivolse all’amico Mussolini che aveva dichiarato che i confini di quel paese confinante con l’Italia sa- rebbero stati difesi strenuamente e che a proposito aveva fatto marciare le truppe italiane verso il Brennero. Le parole del Duce, però, risulta- rono pura retorica. Mussolini aveva invaso l’Etiopia, poi aveva parte- cipato alla guerra civile spagnola del 1936, contro i rossi repubblicani. L’asse nazifascista era ben saldo.
A questo punto invece dei cannoni bastarono alcuni colpi di telefono per fare dell’Austria una parte della Germania nazista.
Il principe Filippo d’Assia, marito di Mafalda di Savoia, inviato spe- ciale di Mussolini presso Hitler, dichiarò che “l’Austria è per lui una questione oramai risolta”. E Hitler rispose: “la prego di dire a Mussolini che non lo dimenticherò mai”.
In una comunicazione telefonica fra Londra e Berlino venne chiarito che il ministro degli esteri Joachim Von Ribbentrop in missione a Londra, aveva ricavato un’ottima impressione di Neville Chamberlain.
Halifax ministro degli Esteri britannico concluse i convenevoli soste- nendo che” la vera questione è la Cecoslovacchia”.
Il 13 marzo fra rintocchi di campane Hitler entrò a Vienna: la repubblica austriaca decadde e venne annessa al Reich.
L’Anschluss era compiuto.
MONACO
Erano diversi i gruppi etnici che costituivano la Cecoslovacchia.
C’erano slovacchi, ungheresi, ruteni, cechi e tedeschi, circa tre milioni, che guardavano con simpatia a Henlein, un filo-nazista, che rivendi- cava il diritto ad una piena autonomia territoriale.
I primi ministri di Inghilterra e Francia, Neville Chamberlain e Edouard Daladier, diedero piena soddisfazione alle richieste di Hitler, che ebbe il consenso per occupare entro dieci giorni i territori dei Sudeti.
Hitler, non trovando alcuna resistenza da parte delle potenze democra- tiche occidentali, chiamò piccoli vermi il governo dell’Inghilterra e della Francia.
Solo Winston Churchill in Inghilterra, alla Camera dei comuni, sembrò comprendere la gravità della situazione; invece di trastullarsi con il trionfo della diplomazia britannica, come pensava Chamberlain, capì immediatamente di che cosa si trattava: “(…) ci troviamo dinanzi ad un disastro di prima grandezza. che si è abbattuto sulla Gran Bretagna e sulla Francia.
Non inganniamoci su questo.
Adesso bisogna accettare che tutti i paesi dell’Europa centrale e orien- tale vengano a patti come meglio possono con il potere nazista trion- fante.
Il sistema di alleanze in Europa centrale, cui la Francia aveva affidato la sua sicurezza è stato spazzato via e non vedo in che modo possa es- sere ripristinato.
È stata spianata la strada che porta lungo il Danubio al Mar Nero, alle risorse di grano e di petrolio, la strada che arriva fino alla Turchia.
Cfr. Martin Gilbert, Churchill, Milano 1997 pag. 272
Churchill, rifletteva, quindi su quella politica di appeasement del Ga- binetto britannico guidato da Neville Chamberlain dal maggio del 1937 che sarà stata anche realistica per la Gran Bretagna, una potenza impe- riale invecchiata che aveva bisogno di pace per tenere insieme l’impero, ma che ora chiamava gli inglesi a ben altre responsabilità di fronte all’arroganza nazi-fascista.
Ecco alcuni stralci del documento del patto di Monaco del settembre 1938:
- Le quattro Potenze: Italia, Germania, Regno Unito e Francia, consi- derato l’accordo, che è già stato raggiunto per la cessione alla Ger- mania dei territori Sudeti tedeschi, si sono trovate d’accordo sulle seguenti condizioni
- L’Italia, il Regno Unito e la Francia concordano che l’evacuazione del territorio sia completata entro il 10 ottobre senza che nessuna delle esistenti installazioni sia distrutta e che il Governo cecoslo- vacco sarà ritenuto responsabile per condurre a termine l’evacua- zione senza danno alle installazioni
- Le condizioni che dovranno regolare l’evacuazione saranno definite in dettaglio da una Commissione Internazionale composta dai rap- presentanti dell’Italia, della Germania, del Regno Unito, della Fran- cia e della
- L’occupazione per gradi del territorio prevalentemente-tedesco da parte delle truppe germaniche avrà inizio il 10 (…)
- La Commissione Internazionale di cui all’art. 3 determinerà i terri- tori nei quali dovrà effettuarsi il plebiscito. Questi territori saranno occupati da corpi internazionali fino a che il plebiscito non sia ulti- mato, La stessa Commissione fisserà le condizioni in cui il plebiscito dovrà essere tenuto, prendendo come base le condizioni del plebi- scito della Tale Commissione fisserà altresì una data, non oltre la fine di novembre, alla quale il plebiscito dovrà tenersi.
Enzo Collotti, La seconda guerra mondiale, Torino 1973, pag. 31
IL BELLO E IL CATTIVO TEMPO
La domanda se la può porre anche un bambino: come mai Hitler, l’im- bianchino rancoroso, poteva fare il bello e il cattivo tempo in Europa? La risposta, semplice, sul piano logico (perché nessuno aveva interesse a contrastarlo), non è mai stata facile sul piano storico.
Durante il ventennio che separa la fine della prima guerra mondiale e l’inizio della seconda l’Inghilterra, ad esempio, aveva sempre seguito la linea politica dell’appeasement, cioè di un comportamento equo sul piano internazionale con la Germania sconfitta, e nello stesso tempo vi- gilante per quanto riguarda l’insorgere di nuovi nazionalismi.
Nel 1938 con la questione cecoslovacca l’appeasement era diventato un compromesso disonorevole, perché per mantenere una fittizia pace si doveva ricorrere ai compromessi più bassi ai danni, ad esempio, della Cecoslovacchia.
Insomma Francia e Inghilterra guardavano sì con preoccupazione alla rinascita del nazionalismo tedesco in chiave nazista, ma nel contempo avevano timore del socialismo in un solo paese di Stalin.
E lo stesso Stalin non vedeva di buon occhio l’appeasement con la Ger- mania.
Fra comunismo e capitalismo Hitler giocava quella Terza posizione spi- ritualista, antimaterialista, madre di tutti i nazifascismi di sempre.
Eppure Hitler non era ancora pronto ad affrontare una guerra. Infatti fino al 1936, il riarmo tedesco fu sostanzialmente un mito.
Hitler, come ricordano spesso gli storici e gli osservatori più attenti, an- teponeva il burro ai cannoni.
Più di ogni altra cosa i nazisti erano dei gran dissimulatori, facevano finta di fare una cosa e in realtà ne pensavano un’altra.
BASTARDI SENZA GLORIA
La seconda guerra mondiale, iniziò il 1° settembre 1939. Non per tutti gli storici.
Si dice che nell’autunno del 1944, poco dopo la liberazione della Francia il generale De Gaulle a Tolosa passasse in visita le formazioni parti- giane di quel dipartimento.
Incontrando un uomo, malamente vestito, che indossava un un’uni- forme stracciata gli chiese: “Quando siete entrato nella Resistenza, mon ami (…)
Il partigiano rispose: molto prima di voi, mon général”.
L’uomo era un partigiano veterano della guerra civile spagnola. Quindi per il partigiano la guerra era iniziata nel 1936.
Ma la data dell’inizio del secondo conflitto mondiale non può essere solo una data di tipo convenzionale, subordinata all’analisi politica che gli storici fanno di quel periodo.
Se è vero che dal punto di vista della guerra nazionalistica fra nazioni il 1939 è la data che tutti riconoscono, quella della guerra contro il fa- scismo, ad esempio, è senz’altro riconducibile alla Spagna del 1936.
In Spagna si fecero le prove generali, Germania e Italia da una parte, Francia, Inghilterra, Stati Uniti e Unione Sovietica dall’altra.
Se così fosse, però, sarebbe stato tutto molto semplice.
Non si può dividere, infatti, in modo netto la guerra patriottica dei sin- goli stati, dalla guerra dell’ideologia nazi-fascista, da quella di un fronte antifascista.
La guerra della Germania fu una guerra nazista, quella dell’Italia una guerra fascista, quella dell’Inghilterra una difesa dell’Impero, quella degli Stati Uniti un’uscita dall’isolazionismo, quella dell’Unione Sovie- tica una guerra per la difesa del “socialismo in un solo paese”.
Questo all’inizio.
Poi, senza arrivare alla scoperta dei campi di sterminio della soluzione finale, la guerra diventò per la coalizione antifascista la guerra per la difesa dell’umanità, insomma la guerra giusta, la sola e unica guerra giusta che coi suoi orrori ha comportato la salvezza del genere umano. Una guerra di eroi, ma anche di tanti “Bastardi senza gloria”, di mino- ranze sediziose, di gente comune. Per cui si potrebbe partire da una data, un’ennesima data: il 1938, esattamente quella fra il 9 novembre 1938 e il 10 novembre 1938, quella della Notte dei cristalli.
LA NOTTE DELLA MATTANZA
Il 7 novembre 1938 un ebreo-tedesco diciassettenne di nome Herschel Grynszpan, ferì mortalmente a Parigi il terzo segretario dell’ambasciata tedesca in Francia.
L’ironia della sorte è che il terzo segretario venne scambiato dal giovane per l’ambasciatore Johannes Von Welczeck.
Ernst vom Rath, in compenso, questo il nome del terzo segretario, era spiato dalla Gestapo, come antinazista.
Due giorni dopo, Hitler e Göring celebravano l’anniversario del putsch della birreria.
Era l’occasione giusta per una “spontanea reazione del popolo tedesco” contro la violenza dei giudei.
La costernazione di Göring fu autentica: l’amico di Hitler, amava le cose belle e disse ad Heydrich che “invece di distruggere tante cose belle, avrei preferito che uccideste duecento ebrei”.
La notte dell’odio nazista provocò la distruzione di 815 botteghe, l’in- cendio di 171 abitazioni, l’arresto di 20.000 ebrei e l’uccisione di trenta- sei.
La Kristallnacht fu un evento di straordinaria rilevanza perché non solo fu un’aggressione su scala nazionale contro gli ebrei, ma fu chiarito che gli ebrei, tutti gli ebrei censiti in Europa, ma forse nel mondo, secondo i piani di onnipotenza del nazismo, sarebbero stati eliminati con il do- vuto spargimento di sangue.
Inutile far finta che ciò non influì sulla seconda guerra mondiale: “Poi i soldati del cordone ordinarono agli ebrei di alzarsi (…)
la folla seguiva gli ebrei (…)
Tutti si dirigevano verso quello che veniva chiamato il cimitero dei ca- valli, lì era già stata scavata una trincea (…)
Certo non partecipavo alle esecuzioni, non comandavo i plotoni, ma questo non faceva una gran differenza (…)
Fin dall’infanzia mi ossessionava la passione per l’assoluto e per il su- peramento dei limiti, ora quella passione mi aveva portato sull’orlo delle fosse comuni (…)
E se poi la radicalità era quella dell’abisso, e se l’assoluto si rivelava il male assoluto, bisognava comunque, di questo almeno ero intima- mente persuaso, seguirli fino in fondo, a occhi ben aperti.
E un editoriale del foglio ufficiale delle SS “das Schwarze Korps” così recitava: “Gli ebrei devono essere cacciati dai nostri quartieri residen- ziali e segregati in luoghi dove vivranno soltanto loro, con il minimo contatto possibile con i tedeschi (…) Lasciati a loro stessi quei parassiti si ridurranno in miseria (…)
L’editoriale così proseguiva: “Nessuno si illuda tuttavia, che rimarremo imbelli, limitandoci a guardare. Il popolo tedesco non ha nessuna in- tenzione di tollerare la presenza nel proprio paese di centinaia di mi- gliaia di delinquenti, che non solo si assicurano di che vivere con il de- litto, ma pretendono anche di farsi vendetta.
Centinaia di migliaia di ebrei impoveriti diventerebbero un fertile ter- reno per il bolscevismo e per tutta la critica subumana dei criminali po- litici.
In una situazione siffatta ci troveremmo di fronte alla dura necessità di sterminare la malavita ebraica allo stesso modo in cui, governati come siamo dalla legge e dall’ordine, siamo abituati a sterminare ogni tipo di criminale; col ferro e col fuoco.
L’esito sarebbe l’effettiva e definitiva scomparsa del giudaismo in Ger- mania, il suo annientamento totale.
Cfr. Daniel J. Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler, Milano 1997 pag. 153
BORN IN USA
Franklin Delano Roosevelt era un eroe popolare negli Stati Uniti.
Era il presidente che aveva portato fuori i suoi concittadini dalla de- pressione del 1929 e aveva quindi un’influenza enorme sulle masse, anch’egli come Churchill era un capo senza essere un dittatore.
E il presidente degli Usa non aveva nessuna intenzione di entrare in guerra. Però dopo la Notte dei cristalli, nonostante il popolo americano pur disprezzando i nazisti, non volesse entrare in guerra, le cose cam-
biarono. Le relazioni-franco-tedesche entrarono in crisi e nel suo mes- saggio al Congresso del 4 gennaio del 1939, Roosevelt chiese che gli ag- gressori nazisti fossero combattuti con metodi Short of war (al limite della guerra). Nonostante tutto ciò in un referendum effettuato nel set- tembre del 1939, il primo del tempo di guerra, gli americani si dicevano contrari ad entrare in guerra a fianco dell’Inghilterra, della Francia e della Polonia (il 43% degli uomini, il 32,2 % delle donne). Solo lo 0,2 si pronunciava per un intervento a fianco delle potenze occidentali e solo il 14% si dichiarava d’accordo nel non entrare in guerra e aiutare Fran- cia, Inghilterra e Polonia con viveri e materiali. Roosevelt conosceva quindi l’orientamento popolare che sosteneva l’isolazionismo rispetto al vecchio mondo, anche se in effetti proprio gli Usa, la Francia e l’In- ghilterra ne avevano tratto i maggiori profitti negli Anni Venti dopo la prima guerra mondiale: la crisi del ’29 cambiò tutto.
Il 5 settembre Roosevelt solennemente davanti al congresso disse: “Dato che purtroppo uno stato di belligeranza esiste fra la Germania da una parte e la Francia. la Polonia, il Regno unito, l’India, l’Australia e la nuova Zelanda dall’altra parte e dato che le leggi e i patti degli Stati Uniti comportano per ogni persona che si trovi nel loro territorio l’ob- bligo di un’assoluta neutralità nel periodo delle ostilità, senza ledere il principio della libertà di opinione (…)
Io Franklin Delano Roosevelt presidente degli Stati Uniti d’America, dichiaro di assicurare la neutralità degli Stati Uniti, dei loro cittadini e di ogni altra persona entro i confini dello stato, di mettere in pratica le sue leggi e assicurare i suoi impegni. “.
Cfr. Giorgio Vitali, F. Delano Roosevelt, Dal New Deal a Yalta, Milano, 1991, pag.78
E una settimana dopo, l’8 settembre, sapendo qual era il pensiero unico americano in fatto di guerra fu ancora più prudente:
“Nessuno pensa, sotto qualsiasi forma o modo, di mettere la nazione sul piede di guerra, sia pure in propria difesa o in difesa dell’economia interna:
È una cosa questa che vogliamo assolutamente evitare.
Noi vogliamo mantenere la nazione sul piede di pace, uniformandoci all’esercizio dei poteri costituzionali.”
Cfr. Giorgio Vitali, op. cit. pag. 79
I CRISTALLI DI BOEMIA
Il 15 marzo 1939 le truppe tedesche marciarono senza incontrare resi- stenza in ciò che rimaneva della Cecoslovacchia.
E la Cecoslovacchia non era una preda tanto facile per i nazisti.
Fra i vari paesi belligeranti i cechi erano molto più pronti degli altri al conflitto.
È vero che Monaco evitò una guerra, ma come vedremo fu il preludio necessario al trionfo del nazifascismo.
Si ricordi che la Cecoslovacchia era la sesta potenza industriale euro- pea, aveva una delle industrie di armamenti più famose, eppure a Mo- naco fu data in pasto ai nazisti per tenersi buono Hitler.
Secondo alcuni storici, poi, nel 1938 la Boemia più la Slovacchia era il solo paese che poteva tenere testa militarmente alla Germania nazista. L’esercito che contava la bellezza di trentacinque divisioni era molto più pronto ad una eventuale guerra degli eserciti della Francia, dell’In- ghilterra, dell’Unione Sovietica, per non parlare dell’Italia.
Poteva, dunque, tenere testa alle truppe di Hitler che non erano mini- mamente preparate per una guerra.
I Cechi erano equipaggiati meglio dei tedeschi nell’artiglieria e pure per quanto riguarda i carri armati.
Il Piccolo Caporale coronò il suo sogno facendo sfilare trionfalmente le sue truppe a Praga.
La città boema rappresentò una svolta.
Nel caso delle violazioni degli accordi di Versailles i nazisti avevano sempre avuto la giustificazione pronta: le umiliazioni subite a Versail- les erano da cancellare. Ora la conquista di Praga rappresentava il na- zismo come il partito della conquista, oltre che della rivincita naziona- lista.
PRAGA
Difficile quando si va a Praga non andare a visitare il castello di Hradschin. Difficile è anche ricordare che la notte del 15 marzo1939, nell’antica sede dei Re di Boemia, Hitler passò una notte d’amore in compagnia della sua calcolata e cinica follia nazionalsocialista. Il 16 marzo da quel castello proclamò il Protettorato della Boemia e della Moravia. Poi arrivarono le SS di Himmler per cominciare la repressione nello Stato Boemo.
“Bambine! questo è il giorno più importante della mia vita! Passerò alla storia come il più grande dei tedeschi”, aveva esclamato Hitler, secondo la versione di una delle sue segretarie, quando era riuscita la macchina- zione che comportava l’invasione della Cecoslovacchia.
Lo stesso Hitler nella proclamazione del protettorato motivò il suo atto di forza sostenendo che: “Durante un millennio le province della Boe- mia e della Moravia fecero parte dello spazio vitale del popolo tedesco e che la Cecoslovacchia ha dimostrato un’intrinseca incapacità di sussi- stere, tanto che ora è vittima di un vero processo di dissoluzione. Il Reich tedesco non può tollerare, in queste zone, continui torbidi (…) Hitler spiegò che il Reich tedesco, seguendo la legge dell’autoconserva- zione, aveva ormai deciso di intervenire risolutamente per ristabilire le fondamenta di un ordine logico dell’Europa Centrale.
Scrive William T Vollmann: mentre il sonnambulo guarda avanti, la sua creatura dal cuore di lupo, Göring, spiega che la Cecoslovacchia è “un pezzo d’Europa insignificante”. (Le camicie brune sono già comparse sul posto per accogliere il sonnambulo con i loro sottogola, gli sten- dardi, le ghirlande. Presto scriveranno “EBREO” sulle vetrine ebraiche e agiteranno i pugni. Nell’atto successivo, mentre si alza il sipario, ve- dremo arrivare poliziotti con la testa di metallo, rigidi sui loro camion, a portar via ebrei e ostaggi.) Göring continua: i cechi vil razza di nani senza alcuna cultura, che nessuno sa neppure da dove vengano. Stanno opprimendo una razza civilizzata e dietro di loro, a parte Mosca, si vede l’imperituro volto del demonio ebraico.
E la Cecoslovacchia svanisce come una manciata di libri gettata fra le fiamme, di notte. I bambini in Inghilterra e in Francia cominciano a
esercitarsi con le maschere antigas in vista dell’arrivo delle colonne dei soldati del sonnambulo.
Cfr. T. Woolman, Europe central, Milano 2013, pag. 166
La Cecoslovacchia era già stata liquidata durante la conferenza di Mo- naco.
In base all’accordo di Monaco la Cecoslovacchia cedeva alla Germania
11.000 miglia quadrate di territorio in cui risiedevano 2.800.0000 tede- schi dei Sudeti e 800.000 cechi.
Il nazismo trionfava, italiani e tedeschi si credevano i padroni dell’Eu- ropa e da quel momento la barbarie terroristica del nazismo scese su Praga e i territori cechi.
Per capire l’importanza della conquista della Cecoslovacchia non solo abbiamo riportato l’entusiasmo di Hitler, ma come se non bastasse ecco cosa pensava Benito Mussolini di Praga alla luce degli accordi di Mo- naco.
Il Duce, che nulla aveva a che fare con la criminalità del Signore del Male, ma che comunque alla fine decise per” l’ineluttabile alleanza”, così parlò ad una riunione di prefetti italiani alla fine del 1938.
“La parola Monaco significa che per la prima volta dal 1861 l’Italia ha avuto una parte assolutamente di primo piano e decisiva in un avveni- mento di importanza mondiale (…) (Vivi applausi).
Ciò che è accaduto a Monaco è stato semplicemente colossale, ed io adopererò questa parola deliberatamente perché è una delle nostre. Ciò che è accaduto a Monaco significa la fine del bolscevismo in Europa, la fine di ogni influenza politica russa sul nostro continente.
Praga era il centro propulsore della democrazia e del bolscevismo. Praga ospitava gli archivi della Terza Internazionale.
Con la conquista di Praga noi abbiamo già conquistata Barcellona.” Cfr. F. W. Deakin, La brutale amicizia, Mussolini, Hitler e la caduta del fasci- smo italiano, Torino 1963, pag. 12
Mussolini raggiunse il suo apogeo di popolarità quando fece l’arbitro della commedia-tragedia di Monaco, e, tanto per non essere da meno
del suo amico Adolf, si fece difensore dell’occidente romano contro la bolscevizzazione del mondo.
Gira e rigira la questione comunista veniva sempre fuori e trovava ri- scontro anche nella politica delle potenze occidentali durante gli Anni Venti e Trenta: “negli anni trenta l’anti-bolscevismo fu in parte messo in ombra da un’altra frattura all’interno della società europea.
Quando Mussolini instaurò il fascismo in Italia, ad eccezione dei socia- listi di sinistra furono in pochi ad allarmarsi.
A dire il vero si credette che il Duce avesse salvato l’Italia dal bolscevi- smo.
Mussolini assunse le sembianze di uno statista rispettabile (…)”.
Cfr. Alan J. P. Taylor, Storia della seconda guerra mondiale, Bologna 1963, pag. 14
In Europa si credeva che Hitler e Mussolini avessero salvato l’Occi- dente dalla rivoluzione bolscevica, questo è un dato di fatto innegabile. L’opinione pubblica benpensante in Germania, ad esempio, minimiz- zava violenze, torture ed omicidi.
Che erano diventati un fatto quotidiano dalla presa del potere di Hitler. In Italia Mussolini si era assunto la paternità morale del delitto Mat- teotti, in Giappone, come vedremo, la casta militare imponeva un pen- siero unico di misticismo nazionalista contro tutte le razze inferiori dell’Asia, in primis i cinesi.
La destra anticomunista mondiale operò così una svolta militarista e fascista promettendo pace, pane, in nazioni forti e coese dal nazionali- smo. Nel 1936 in Spagna ci fu quello che si poteva chiamare un anar- chismo utopistico, velleitario e gioioso: ristoranti diventarono mense operaie, manifesti denunciavano la prostituzione come sfruttamento delle donne, le chiese venivano razziate perché covi di religiosità su- perstiziosa e fortilizi clerico fascisti. C’era di tutto per lo scoppio di una guerra apocalittica.
IL COMPLEANNO DI UN CRIMINALE
Hitler, uomo dalle umili origini, aveva portato una Germania disar- mata, caotica, vicina al fallimento ad assumere il ruolo di grande po- tenza del vecchio continente.
A Berlino per il compleanno del Führer fu organizzata il 20 aprile del 1939 una grande festa.
Le celebrazioni iniziarono la sera precedente quando Hitler percorse con Albert Speer il nuovo asse Est-Ovest appena completato in tutta la sua lunghezza.
Nel breve intervallo di sei mesi Hitler aveva conquistato l’Austria e la regione dei Sudeti e appunto a Monaco, in terra bavarese il 29 e 30 set- tembre del 1938 la conferenza con la mediazione di Mussolini aveva celebrato il trionfo del nazi-fascismo.
GIUSEPPE STALIN LA SAPEVA LUNGA
Come si fa a dire che Giuseppe Stalin stava dalla parte giusta quando stipulò un accordo con Hitler sulla pelle dello stato polacco? Eppure Stalin la sapeva lunga.
” Il programma di Hitler era rivolto: all’Unione Sovietica in quanto obiettivo di conquista (“spazio vitale all’Est”), una volta assicuratasi la libertà alle spalle sul continente con l’eliminazione della potenza mili- tare francese; alla Gran Bretagna in quanto Junior partner di un Impero Germanico sul continente europeo (con uno spazio” integrativo” colo- niale in Africa); e infine agli Usa in quanto avversari principali, in un lontano futuro, nella lotta per il “predominio mondiale”.
Cfr. Andreas Hillgruber, Storia della 2a guerra mondiale, Bari,1984 pag. 7
La guerra era alle porte. Lo spazio vitale, quello spazio vitale a Est che stava diventando l’alibi morale per la carneficina orchestrata da Hitler e dai nazisti, trovava nuovi obiettivi tattici.
E Stalin voleva cautelarsi dall’agenda nazista che aveva calendarizzato le seguenti tappe:
- l ’imposizione alla Lituania di cedere la città di Memel, 22 marzo 1939;
- la denuncia del patto di non aggressione con la Polonia, 27 aprile;
- conclusione del patto d’Acciaio con Mussolini il 22 maggio;
- l’annessione della Boemia e della Moravia diventati protettorati te- deschi.
In quelle settimane di frenetiche trattative che preparavano la guerra, a stupire il mondo era stata la firma del 23 agosto a Mosca del patto di non aggressione fra la Germania nazista e l’Unione Sovietica di Stalin. Oltre al patto di non far guerra per dieci anni, un protocollo segreto stabiliva le rispettive zone di influenza nel caso di spartizione della Po- lonia.
Ribbentrop, ministro degli Esteri del Terzo Reich, era partito in aereo per Mosca.
Hitler capì immediatamente che si sarebbe raggiunto un accordo con Mosca.
La spartizione con i sovietici della Polonia non presentava alcuna diffi- coltà riguardo alle regioni degli stati Baltici.
Con la sua abilità politica Hitler portava a casa un risultato senza pre- cedenti dividendo il fronte dell’antifascismo, cioè l’alleanza fra Inghil- terra, Francia e Russia.
In una lettera a Mussolini del 25 agosto il Piccolo Caporale preannun- ciava le imminenti ostilità verso la Polonia, data la situazione favore- vole determinata dal patto nazi-sovietico.
Ecco alcuni articoli, in sintesi, del patto di non aggressione tedesco-so- vietico.
Art.1) Le due Parti contraenti si impegnano ad astenersi reciproca- mente da qualsiasi atto di violenza, da qualsiasi azione aggres- siva …tanto isolatamente quanto in collegamento con altre Po- tenze (…)
Art.3) Governi delle due Parti contraenti resteranno in avvenire co- stantemente in contatto consultivo, per informarsi reciproca- mente sulle questioni che toccano i loro comuni interessi (…)
Art.5) Nel caso che sorgano divergenze o conflitti fra le Parti con- traenti di qualsiasi natura, i due contraenti appianeranno que- sta divergenza o questo conflitto esclusivamente a mezzo di scambi amichevoli di vedute (…)
Art.6) Il presente trattato è concluso per la durata di dieci anni (…) Art.7) Il presente trattato deve venir ratificato entro il più breve ter-
mine possibile. I documenti di ratifica saranno scambiati a Ber- lino (…)
Mosca, 23 agosto 1939
Von Ribbentrop – Molotov – Protocollo Aggiuntivo
In occasione della firma del patto di non aggressione tra il Reich tedesco e l’Unione delle Repubbliche socialiste sovietiche i sottoscritti plenipo- tenziari di ciascuna delle due parti hanno discusso in conversazioni strettamente confidenziali la questione dei confini delle loro rispettive sfere di influenza nell’Europa orientale. Tali conversazioni hanno con- dotto alle seguenti conclusioni:
- Nell’eventualità di una nuova sistemazione territoriale e politica nei territori appartenenti agli Stati baltici (Finlandia, Estonia, Lettonia, Lituania), la frontiera settentrionale della Lituania rappresenterà il confine delle sfere di influenza della Germania e dell’URSS (…)
- Nell’eventualità di una nuova sistemazione territoriale e politica dei territori appartenenti allo Stato polacco, le sfere di influenza della Germania e dell’URSS verranno delimitate approssimativamente dalla linea dei fiumi Narew, Vistola e San. La questione se gli inte- ressi delle due parti rendano desiderabili il mantenimento di uno Stato indipendente polacco e quali confini dovrebbe avere un tale Stato, potrà venire definitivamente accesa solo nel corso degli ulte- riori sviluppi (…)
Questo protocollo verrà considerato da ambo le parti come segretis- simo.
Mosca, 23 agosto 1939
Per il governo del Reich tedesco Plenipotenziario del governo dell’URSS
Von Ribbentrop V. Molotov
Cfr. Enzo Collotti, op. cit. pag. 35
Da quando la Russia si trovò isolata sul piano internazionale in seguito alla Rivoluzione d’ottobre, Stalin aveva cominciato a preoccuparsi per una guerra contro l’URSS.
Non aveva torto.
Stalin non vide di buon occhio il fatto che Chamberlain e Daladier aves- sero acconsentito alla spartizione della Cecoslovacchia in quella ma- niera.
Non solo, nel pieno della crisi Stalin diede ordine a Maksim Maksimo- vič, ministro degli esteri, di avvertire i cechi che la Russia era pronta a scendere in guerra in difesa della Cecoslovacchia.
Come vedremo in seguito l’abilità diplomatica di Hitler nel negoziare la neutralità dell’URSS risultò alla fine un errore.
Francia e Inghilterra, pensava il Führer, non sarebbero mai intervenute nel caso di un attacco alla Polonia da parte tedesca.
La guerra, in questo senso, sarebbe rimasta in un ambito regionale, e anche se fosse deflagrata in tutta Europa la Germania avrebbe avuto le spalle coperte per far guerra contro l’Occidente.
Gli storici russi, a tal proposito, sono concordi nel sottolineare l’impa- zienza di stipulare l’accordo da parte dei nazisti.
Stalin acconsentì, visto le pressioni naziste, ad invitare Ribbentrop a Mosca.
Fu quella una notte torrida, piena di sorprese, che gettò nel panico l’Eu- ropa intera.
Con due grandi aerei Condor la delegazione tedesca atterrò a Mosca a mezzogiorno del 23 agosto.
La prima riunione al Cremlino durò tre ore, il patto fu firmato in una seconda riunione avvenuta sempre al Cremlino in quella stessa serata. Quello che i giornali del mondo non poterono cogliere fu l’atmosfera che si era creata fra le due delegazioni.
Stalin era così contento che osservò: “se l’Inghilterra dominava il mondo ciò era dovuto alla stupidità degli altri paesi che si lasciavano sempre ingannare”.
Ribbentrop, uomo notoriamente privo di senso dell’umorismo, di- chiarò che Stalin si sarebbe associato volentieri al patto-anti Comintern.
Alla riunione Stalin propose spontaneamente un brindisi al Führer. Quello che avevano sottoscritto nazisti e comunisti in quella serata del 23 agosto del 1939 mise nell’angoscia milioni di comunisti, ma anche di antifascisti.
L’abbiamo letto prima in senso protocollare il trattato, il senso politico è ancora più disarmante.
Il patto, innanzitutto, prevedeva che le due potenze non si sarebbero attaccate.
Se una di esse fosse stata oggetto di aggressione da parte di una terza potenza, l’altra non avrebbe prestato aiuto a questa potenza.
Hitler aveva ottenuto il suo scopo: l’Unione Sovietica non si sarebbe alleata a Francia e Inghilterra nel caso la Germania avesse attaccato la Polonia.
Il prezzo da pagare da parte dei nazisti è indicato nel protocollo segreto addizionale al patto che abbiamo visto in precedenza.
È il secondo punto, è bene dirlo, che fece inorridire democratici e sinceri comunisti di tutto il mondo:
“Nel caso di mutamenti politici del territorio polacco le sfere d’in- fluenza della Germania e dell’URSS saranno delimitate approssimati- vamente dai fiumi Narew, Vistola e San”.
La pugnalata alla Polonia doveva, però, ancora arrivare: in base ai fu- turi sviluppi politici era possibile decidere definitivamente se gli inte- ressi delle due parti avrebbero reso desiderabile il mantenimento di uno stato polacco (…)
L’INCREDULITA’ INGLESE
Il presidente del consiglio francese, Edouard Daladier, svegliato bru- scamente dal suo ministro degli Esteri rispose: assicuratevi che non si tratti di una panzana di qualche giornalista.
Insomma l’accordo fra nazionalsocialisti e stalinisti era considerato con linguaggio odierno una bufala giornalistica, pure dagli addetti ai lavori. Quando da Berlino e da Mosca venne annunciato in tono trionfale che era stato stipulato un patto di non aggressione lo sconcerto fu enorme. Intanto a Londra e a Parigi si intravvide la possibilità della guerra come fatto imminente.
Ora che a Est si siglava la pace, a Ovest si sarebbe scatenata la furia nazista.
Chi è causa del suo mal pianga sé stesso, verrebbe da dire a Chamber- lain e Daladier, che avevano concesso troppo alla Germania per non rimanere alla fine fregati.
Al contrario a Berlino e a Mosca si respirava un’atmosfera tutta diversa. Anche se il Patto era inficiato dalla malafede reciproca fu accettato dalla popolazione tedesca e sovietica come il prezzo minore da pagare per mantenere la pace.
Per capire meglio di quale compromesso si trattasse basta rifarsi a quello che Hitler dichiarò l’11 agosto 1939: “Tutti i miei sforzi sono di- retti contro la Russia. Se l’Occidente è tanto stupido e cieco da non ca- pirlo, sarò costretto a mettermi d’accordo con i russi, colpire l’occidente e poi, dopo la sua sconfitta, rivolgermi con tutte le forze verso l’Unione Sovietica”.
A Berlino si respirava un’aria allegra, i caffè, in quella giornata calda e afosa erano pieni di gente che si lasciava andare a battute di spirito tipo “Heil Stalin”.
Si dice che in alcune birrerie fu suonata addirittura l’Internazionale, al- cuni berlinesi buontemponi andarono a suonare il campanello dell’am- basciata russa gridando” Heil Mosca”.
Il ragionamento del popolo tedesco, dettato dal senso comune e dalla contrarietà ad entrare in guerra, era semplice, ma anche efficace.
Ormai la Germania era a prova di blocco e stava nella classica botte di ferro; la Marina militare inglese mai avrebbe potuto soffocare l’econo- mia tedesca come nella prima guerra mondiale grazie alla porta aperta con l’Unione Sovietica, che assicurava rifornimenti di alimenti e mate- rie prime.
E di certo Francia e Inghilterra non sarebbero scese in guerra in difesa della Polonia.
MOSCA
La visita di Ribbentrop a Mosca e la firma del patto con Molotov non innescò commenti critici in terra russa.
Anche perchéé “non usava”.
Che un paese all’avanguardia del proletariato e della lotta antifascista avesse teso la mano ai nazisti era considerato comunque un gioco di prestigio di Stalin e Molotov.
I due sapevano quel che facevano, e se volevano garantire la pace alla patria del socialismo era cosa buona.
D’altronde Francia, Inghilterra e Polonia con il loro atteggiamento im- perialista non erano certo immuni da colpe nell’isolamento della Unione Sovietica.
È proprio Stalin mostrava una certa soddisfazione.
Il suo ragionamento era tutt’altro che criminale. Il “meraviglioso” geor- giano aveva sventato sia le voglie aggressive antibolsceviche dei fasci- sti, sia quella subdola e ipocrita condotta delle potenze occidentali verso il paese del comunismo.
Molotov a proposito dichiarò.
“l’arte della politica negli affari esteri è di ridurre il numero dei nemici di un paese e trasformare i nemici di ieri in buoni vicini”.
ROMA
I passi che condussero all’accordo fra tedeschi e russi non furono co- municati in nessun modo a Mussolini.
Dopo la firma del Patto d’acciaio fra Germania e Italia era l’Italia ad essere diventata una piccola cosa rispetto alla grande Germania.
E il Patto fu una mazzata terribile anche per quegli italiani che credet- tero fermamente nell’antifascismo dell’Unione Sovietica quale patria- stato di tutto il proletariato mondiale.
Pietro Nenni sul nuovo Avanti scrisse da Parigi: “Un colpo immenso è stato portato alla politica di unità e d’azione che era stata il cardine de- gli antifascisti in Francia.”
DANZICA
Non era tanto la questione di Danzica a impensierire Hitler e i nazisti. Hitler in quel periodo era un uomo realizzato e felice.
Lo raccontava sempre durante le sue interminabili riunioni, si faceva pure bello con qualche generale prussiano per farsi perdonare la sua misera provenienza.
La crisi che sfociò nella seconda guerra mondiale non fu certo per la città libera di Danzica, che tagliava il Reich tedesco nella Prussia orien- tale.
O almeno lo fu solo in apparenza.
Solo la propaganda nazista insisteva sul Corridoio, sui poveri tedeschi separati in casa dalla presenza di ebrei, cattolici, slavi, zingari.
Questi “sotto-uomini”, che andavano eliminati fisicamente dal sacro suolo tedesco, non erano che la squallida messinscena di un’ambizione molto più sfrenata: “essere una forza della natura”, come aveva dichia- rato nell’aprile del 1939 al ministro degli Esteri romeno Gafencu.
A Hitler poco importava di Danzica perché quello era solo uno stru- mentale artificio.
Anche la sua offerta ai polacchi poteva essere considerata quasi gene- rosa: la proposta di un Corridoio non era da buttare via.
Hitler, poi, riteneva la Polonia uno stato con grandi affinità con la Ger- mania.
La Polonia era uno stato autoritario, lodato dai nazisti per le forti ten- denze anticomuniste, ciò poteva bastare.
C’era infine quella supponenza sciovinista dello stato polacco che aveva destato parecchie perplessità in tutte le cancellerie d’Europa.
“il ministro degli Esteri Josef Beck, un forbito intrigante che con una sorta di disperata prestidigitazione riusciva a mantenere una perigliosa equidistanza, non fece che complicare ulteriormente la situazione ela- borando gli ambiziosi piani di una “terza Europa”.
Dal mar Nero all’Ellesponto avrebbe dovuto venire in essere un blocco di stati neutrali sotto la guida della Polonia.
E a tale scopo egli cercava di far partito proprio della politica aggressiva di Hitler.
Vedi. J. Fest, op. cit.
Quando l’ambasciatore polacco a Parigi venne a sapere che Hitler aveva dichiarato al commissario della società delle nazioni che avrebbe conquistato la Polonia in tre settimane questi dichiarò “è assurdo sa- remo noi a invadere la Germania”.
Credevano i polacchi che una guerra avrebbe provocato una rivolu- zione a Berlino.
Bisogna anche pensare che i polacchi desideravano essere temuti e trat- tati come una grande potenza e quando la questione di Danzica arrivò al dunque sbagliarono i loro conti.
Hitler tendeva ad offrire ai polacchi una via di uscita onorevole, mentre i polacchi sembravano decisi ad affrontare la Germania e a farla finita una volta per tutte.
Le cose, però, non stavano così.
La Polonia, che aveva stipulato un trattato di mutua assistenza con Francia e Inghilterra, era contenta di questo successo diplomatico a tal punto da considerare improbabile un intervento armato tedesco nel proprio territorio.
L’Inghilterra, il 6 aprile del 1939, si era impegnata a difendere l’indi- pendenza della Polonia e il ministro degli Esteri polacco a salvaguar- dare l’indipendenza della Gran Bretagna.
Come si vede alla vigilia di ogni guerra decisiva per le umane sorti ogni nazione è convinta della propria forza e delle proprie alleanze.
Sia i polacchi che gli anglo-francesi si sbagliavano.
Prima di tutto l’armamento dei polacchi era quello della prima guerra mondiale.
L’aviazione disponeva di appena 420 aerei, l’unica abbondanza di truppe era data dai 37 reggimenti a cavallo, in compenso i carri armati erano un centinaio e piuttosto vecchiotti.
Eppure Ribbentrop, quando il 26 gennaio del 1939 si era recato in visita a Varsavia, aveva trovato una città piena di croci uncinate, quando vi ritornerà due mesi dopo disse chiaramente che la Germania esigeva la restituzione di Danzica e proponeva l’istituzione di un passaggio extra- territoriale entro il Corridoio.
HOSSBACH MEMORANDUM
Il 5 novembre del 1937 il giovane colonnello Hossbach, aiutante militare del Führer, prese degli appunti di quello che disse Hitler in una riu- nione con i comandanti in capo di marina, esercito e aviazione.
La riunione, che ebbe inizio alle 16,15 e durò fino alle 20,30 risultò il testamento politico di Hitler.
Hitler disse che era obiettivo della politica tedesca la difesa e la tutela della comunità razziale e il suo potenziamento; era, perciò, un pro- blema di spazio vitale (lebensraum).
I tedeschi avevano diritto ad uno spazio vitale maggiore di quello degli altri popoli, perché il futuro della Germania dipendeva completamente dalla misura in cui il suo bisogno di spazio poteva essere soddisfatto. E qui sta il contenuto storico della questione di Danzica.
Perché, come osservato più volte, il vero e unico motivo scatenante un conflitto di 50 milioni di vittime non è stata né l’agricoltura, né l’indu- stria, né la politica, ma solo e unicamente l’ideologia di morte e di guerra del Male assoluto cioè del nazi-fascismo.
Nonostante la volontà di potenza di Hitler in Germania qualcuno an- cora ragionava.
Quando nel 1938 il 27 settembre i nazisti mobilitarono le truppe per marciare contro la Cecoslovacchia i marciapiedi di Berlino erano de- serti.
Altro che adunate oceaniche di tedeschi pronti a seguire il proprio Duce fino alla vittoria.
Shirer, giornalista e storico americano accreditato a Berlino, parlò della “più impressionante dimostrazione contro la guerra che si sia mai vi- sta”.
Hitler ne rimase fortemente deluso, non si aspettava una freddezza di quel genere dal suo popolo.
Erano però berlinesi, troppo smaliziati per certe cose.
Avere descritto il Reich come una specie di fortezza avanzata contro il comunismo non era sufficiente a far credere alla guerra a milioni di te- deschi.
La delusione di Hitler incoraggiò alcuni generali e quadri dell’esercito a tentare un colpo di stato.
Gli antinazisti dell’esercito pensavano addirittura di fare fuori il nuovo Cesare del nazional socialismo.
Questo significava che la versione propagandista che voleva un sol po- polo e un solo Reich, era una frottola bella e buona
Ma le congiure contro il nazismo da parte delle gerarchie militari fu- rono anche il limite dell’antifascismo tedesco.
Quando Hitler decise di non far più guerra alla Cecoslovacchia, ce- dendo alle pressioni di Mussolini nella conferenza di Monaco sui Su- deti, la situazione cambiò all’improvviso.
Solo il giurista Hans Bernd Gisevius, uno degli eterni congiurati contro il nazismo, (ci sarà anche nel complotto del 20 luglio del 1944), voleva procedere comunque con il colpo di stato.
Ma erano pochi i generali aristocratici prussiani pronti a colpire senza sé e senza ma il nazismo: l’annuncio della Conferenza di pace di Mo- naco iniettò euforia in tutte le cancellerie, solo Hitler era disgustato di tanto pacifismo.
“Fra coloro che non condivisero l’euforia di quei giorni vi fu lo stesso Hitler. Durante la conferenza di Monaco apparve pallido e irritato; a momenti si ritirava in disparte con le braccia incrociate e lo sguardo cupo fisso davanti a sé… Benché sia ormai assodato che nell’autunno del 1938 la Germania sarebbe riuscita a resistere solo per pochi giorni a uno scontro armato con le potenze occidentali, Hitler si sentì come un
bambino defraudato di un giocattolo. Ancora nel febbraio del 1945, dal suo bunker di Berlino, sfogava tutta la rabbia che aveva ancora in corpo a causa dell’occasione mancata sette anni prima:” Dovevamo comin- ciare la guerra nel 1938”, disse “perché quella è stata la nostra ultima opportunità per limitare localmente il conflitto. Invece tutti piegarono il capo. Vili, hanno ceduto a tutte le nostre richieste! E così poi in effetti è stato più difficile dare inizio alla guerra”,
Cfr. J. Fest, op. cit. da pag. 750 a 763
BURRO E CANNONI
Anteporre il burro ai cannoni, era stato questo il successo della politica hitleriana, il Welfare che il Führer aveva dispensato alle affamate masse tedesche del dopo Versailles.
Indebolire il tenore di vita dei tedeschi e la propria popolarità per riar- mare un popolo di affamati non era però nel bilancio strategico del Terzo Reich.
Si tratta quindi di trovare il senso di una dissimulazione, di cercare di comprendere come il riarmo tedesco diventò un mito.
Secondo B. Liddell Hart, nella sua “Storia militare della seconda guerra mondiale”, vi sono circostanze che non si possono ignorare per spie- gare le difficoltà della Germania nazista dal punto di vista economico: “A dire il vero alla Germania era preclusa la strada da alcune questioni fondamentali.
Le tariffe economiche con le quali alcuni paesi proteggevano le proprie strutture economiche.
Le difficoltà finanziarie dalle quali la Germania sembrava non uscire
Il timore di Hitler di vedersi subordinato ad altri paesi per l’approvvi- gionamento alimentare a quell’impostazione dottrinaria del Mein Kampf e alle antiche e già collaudate aspirazioni dell’imperialismo te- desco.
Il documento di Hossbach quindi rivela che l’espansione tedesca do- veva avvenire a Est in quello spazio utile dal punto di vista agricolo costituito dalle scarsamente popolate regioni dell’Europa orientale.
L’operazione non sarebbe stata indolore.
E si sarebbe svolta attraverso una guerra lampo, come elemento psico- logico verso la popolazione tedesca che non si era certo mostrata entu- siasta dell’entrata in guerra della Germania: la guerra lampo, infatti, avrebbe permesso di distruggere i nemici del Reich uno alla volta evi- tando quel sentimento di nazione accerchiata su più fronti che era stato determinante nella sconfitta della prima guerra mondiale”.
“Agli occhi di Hitler, all’inizio della guerra nel settembre del 1939 il Terzo Reich, in politica interna, si trovava in una condizione non priva di problemi:
- sul piano militare, non era sufficientemente equipaggiato per soste- nere una guerra di lunga durata e ad ampio raggio
- sul piano economico infine… si trovava a dipendere dall’importa- zione di materie prime indispensabili da paesi che erano fuori dal raggio di un possibile, rapido attacco diretto tedesco”.
Cfr. A. Hillgruber, op. cit. Nota a pag. 218
Giovedì 31 agosto a Berlino fecero le prove generali: Un’esercitazione contro le incursioni aeree aveva svuotato la città.
L’ululato delle sirene, quel lamento che poi diventerà la terrificante co- lonna sonora per milioni di persone in tutto il mondo per sette anni, aveva provocato il blocco del traffico con migliaia di persone che se ne scappavano nei rifugi.
In pochi minuti fu il deserto.
A tenere compagnia ai cavalli legati ai pali dei lampioni dai cocchieri scappati nei rifugi, erano rimasti poliziotti dal viso truce con le ma- schere antigas e i soldati che sui tetti coi binocoli facevano finta di cer- care aerei che solcassero il cielo di Berlino.
Non è che fosse solo quello il teatro messo in atto dagli uomini del Terzo Reich.
Se la recita della difesa della capitale dalle incursioni nemiche poteva pure divertire i ragazzi della gioventù hitleriana, quello che si svolgeva a livello diplomatico in quell’ultimo giorno di pace era ancora maggior- mente grottesco.
Mentre un milione e mezzo di soldati tedeschi cominciavano a posizio- narsi lungo il confine polacco preparandosi all’attacco militare Adolf Hitler stava immaginando qualche trucco per far ingoiare al popolo te- desco la dichiarazione di guerra contro la Polonia.
“Tutti erano contro la guerra”, questo il Führer lo sapeva, Gestapo e servizi segreti lo avevano informato bene.
Una settimana prima, in cima alle Alpi bavaresi che tanto amava, aveva detto ai suoi generali che “avrebbe fornito una ragione propa- gandistica per iniziare la guerra”.
Fosse plausibile o no non era un problema perchéé “nell’iniziare e nel fare una guerra quel che conta non è il diritto, ma la vittoria”.
Il lavoro di Hitler, come quello di Mussolini, aveva in comune un tratto dominante dei due dittatori nazi fascisti: la menzogna, la spudorata e violenta menzogna propagandistica.
Alle nove della sera del 31 agosto tutte le stazioni radio tedesche ave- vano trasmesso le proposte di pace del Führer alla Polonia.
Erano davvero convincenti, non c’era niente da dire, peccato che Hitler non le avesse mai presentate, né ai polacchi, né agli inglesi.
Anzi aveva fatto di tutto per mischiare le carte tanto che la Frankfurter Zeitung intitolava il suo fondo: “Non pace, ma una pace migliore” Nell’articolo si leggeva che la questione andava oltre la Polonia, e che Danzica e il Corridoio erano solo una parte del problema per una coo- perazione pacifica in Europa.
Tutte frottole. In realtà il criminale imbianchino aveva firmato l’ordine di attacco alle 12:40.
L’ora x sarebbe scattata il primo settembre alle 04:45. Nella serata poi, precisamente alle 20:00 venne artificiosamente fabbricato l’incidente che avrebbe messo in moto la macchina da guerra.
1939 settembre nero
A Berlino venerdì primo settembre il cielo era grigio, la giornata afosa, le nuvole basse.
Alle 05:11 del mattino Hitler alzatosi di buon’ora aveva già firmato il documento che dichiarava lo stato di guerra.
C’era stato comunque un preludio bellico.
Alle 04:47 il capitano di vascello Gustav Kleikamp, a bordo della nave da guerra tedesca Schleswig-Holstein, diede l’ordine di aprire il fuoco. Obiettivo delle artiglierie le fortificazioni polacche della Westerplatte, una penisola confinante con il territorio urbano nei pressi di Danzica dove la nave tedesca era ancorata in porto in segno di amicizia. (!) Fu- rono quelle cannonate che svegliarono gli abitanti di Danzica e diedero inizio alla seconda guerra mondiale.
Non si può dire che dal punto di vista militare fu una gran trovata, no- nostante le immagini di repertorio documentate dai nazisti facessero vedere la nave scuola impegnata a cannoneggiare l’inerme Danzica.
E nonostante l’arrivo della Luftwaffe, il giorno stesso, la resistenza della fortificazione durò fino al 13 settembre.
Così come è noto dai resoconti dei corrispondenti di guerra, che si tro- vavano nella capitale tedesca proprio in quella giornata cruciale per la storia dell’umanità, la gente nelle strade era apatica malgrado le grandi notizie che le giungevano via radio e dalle edizioni straordinarie dei giornali del mattino.
In effetti la popolazione accolse la notizia con stordita indifferenza de- dicandosi ai suoi affari come se nulla fosse accaduto.
Pochi si preoccuparono di comprare le edizioni straordinarie dei gior- nali che invasero le strade all’ora di colazione.
Era certamente diverso il clima del 1914.
Un entusiasmo senza precedenti aveva accompagnato la notizia della dichiarazione di guerra tedesca alla Serbia.
Ma Hitler, un tantino nervoso e forse lui stesso stupito da tanta indiffe- renza, dovette sfoggiare tutta la sua abilità oratoria per cercare di dare un senso a una dichiarazione di guerra che, tutto sommato, risultava improvvisata e scalcinata.
Il Führer appariva esausto, tormentato, impacciato nel fornire le ragioni non solo della guerra, ma anche della mancata adesione italiana alla sua avventura.
Alle 10:15 annunciò al Reichstag, riunito in seduta straordinaria alla Kroll Opera, l’inizio dell’invasione del territorio polacco.
Sedeva di fianco al suo prode amico Rudolf Hesse e sciorinò tutto il suo repertorio di falsità naziste sputando odio e veleno contro la Polonia.
“L’attacco è scontato”, disse non si può estorcere a qualcuno una firma, con la pistola puntata contro di lui e sotto la minaccia di affamare mi- lioni di persone e poi proclamare come una legge solenne il documento la cui firma è stata estorta in tal modo” (si riferiva al diktat di Versailles, suo cavallo di battaglia dagli Anni Venti). E poi è tutto un affermare… “a questo punto vorrei anzitutto ringraziare l’Italia (…)”
1939
- CRACOVIA
All’alba del primo settembre, dopo un’intera giornata passata in servi- zio, Albin Kazimierz, nato il 30 agosto del 1922 a Cracovia, iscritto all’associazione scout polacca, organizzazione patriottico educativa, stava pedalando con un gruppo di amici sulla strada da Zakopane a Cracovia.
Erano stanchi per la lunga pedalata i ragazzi ma, innamorati della pro- pria terra, erano estasiati dal paesaggio e dalla bellissima giornata di sole.
La loro giovinezza, però, volgeva al termine.
Improvvisamente furono sorvolati a grande altitudine da una squadri- glia di aerei tedeschi.
Sulla città caddero le prime bombe e poco dopo la radio trasmise un comunicato in cui si diceva che la Germania nazista aveva attaccato la Polonia senza una formale dichiarazione di guerra.
Era cominciato il blitzkrieg su tutti i fronti.
E a Varsavia la comunità ebraica, che aveva avuto il suo momento di benessere, si stava preparando a vivere la tragedia della sua storia umana, pure se è sbagliato pensare agli ebrei polacchi, oppure a tutti i polacchi, solo in funzione dell’Olocausto e delle stragi naziste.
“O amatissima Varsavia della mia gioventù che racchiudevi il mio mondo intero!”, celebravano i poeti della Varsavia pre-bellica.
Ma non solo la poesia, celebrava Varsavia.
Riassumendo: “Wladyslav Szpilman, giovane pianista di Varsavia quello stesso giorno stava recandosi alla radio, vicino alla sua abita- zione.
A metà strada cominciò l’ululato delle sirene: la gente prese paura e presto scappò in varie direzioni, le donne nei rifugi, gli uomini nei por- toni perché non volevano mostrarsi pavidi seguendo le donne nei ri- fugi.
Arrivò alla radio dove regnava la massima confusione, ma tutti erano febbrilmente al lavoro. C’era entusiasmo, secondo il nostro pianista, fra la popolazione polacca, soprattutto perché tutti si aspettavano l’entrata in guerra della Francia e dell’Inghilterra.
L’attesa della battaglia non disturbava affatto lo scorrere quotidiano della vita perché le strade avevano un aspetto quasi normale, nelle ar- terie principali della città c’era un traffico intenso.
I venditori ambulanti facevano buoni affari “vendendo un certo gio- chetto di carta raffigurante un maiale che poi con un atto manipolatorio del foglio diventava il volto di Hitler”
Ma non sapevano, gli abitanti di Varsavia, che Adolf Hitler odiava la Polonia.
Cfr. W. Szpilman, Il pianista, Milano 2008, pag. 30 e ss.
La Polonia si trovava nel cuore del Lebensraum nazista, lo “spazio vi- tale” in cui la Germania era impaziente di espandersi.
Era abitata da una mescolanza di slavi ed ebrei, che erano entrambi classificati dai teorici del Terzo Reich, “untermenschen”.
Nel Mein Kampf il Führer aveva vomitato il suo disprezzo sui cechi, tuttavia trattò il protettorato di Boemia e Moravia con meno ferocia, forse perché, contrariamente ai polacchi, non avevano combattuto per la loro difesa con uguale determinazione.
Hitler ordinò di agire con grande crudeltà alle sue unità speciali, com- mettere un genocidio contro un popolo di sotto-uomini era per i nazisti un dovere morale kantiano.
Quando rivelò i piani sulla Polonia non ci furono dubbi su quello che stava per accadere in Europa: “Gengis Khan per sua volontà e con cuore gioioso fece uccidere milioni di donne e uomini”, disse Hitler.
“La storia lo dipinge solo come il grande edificatore di uno stato.
Ho mandato le mie unità della morte nell’Est con l’ordine di uccidere senza pietà uomini, donne e bambini di razza e lingua polacca.
Solo così conquisteremo il Lebensraum di cui abbiamo bisogno. Chi del resto parla oggi dell’annientamento degli armeni nel 1915?”
Come ci ricorda J. Fest Hitler si spiegò così: “Finché la terra girerà at- torno al sole…finché ci saranno il caldo e il freddo, la fertilità e la steri- lità, il bello e il brutto tempo, finché ci sarà tutto questo, ci sarà la lotta, compresa quella fra i singoli uomini e i singoli popoli. Se gli uomini vivessero nel giardino dell’eden ben presto avvizzirebbero.
Tutto ciò che l’umanità è oggi è stato acquisito grazie alla lotta”.
La guerra quindi come onnipotente legge della vita, come il polemos eracliteo travestito da mitologizzante cultura della morte erano per Hit- ler non tanto dei deliri, ma un modo di essere suo e del popolo tedesco. Sempre secondo Fest la pace per Hitler era da considerarsi “repellente”. Ecco perché Hitler e il nazionalsocialismo cercarono la guerra in modo testardo, quasi capriccioso, quasi fossero degli dei che avevano deciso di punire l’umanità pacifica e vile per il suo atteggiamento di rinuncia alla lotta: un niccianesimo maldigerito, una mente politicamente crimi- nale, la Polonia non era altro che il primo passo verso l’apocalisse ne- cessaria alla salvaguardia dei peggiori del genere umano.
Cfr. J. Fest, op. cit. pag. 750 e ss.
- ANTEFATTO
Hitler era decisamente di buon umore.
Aveva appena saputo che Iosif Stalin aveva accettato il patto di non ag- gressione.
Si trovava nel suo rifugio sull’Obersalzberg, e insieme ai suoi consi- glieri si recò sulla terrazza a contemplare il raro fenomeno dell’aurora boreale.
Era proprio un tardo romantico, quel Führer.
Albert Speer, che fu suo architetto e poi capo degli armamenti della produzione bellica, annotò: “L’ultimo atto del Crepuscolo degli dei non avrebbe potuto essere messo in scena in modo più efficace”.
“Anche i nostri volti e le nostre mani erano tinti di rosso innaturale. Lo spettacolo produsse nelle nostre menti una profonda inquietudine”
Di colpo rivolto a uno dei suoi consiglieri Hitler disse: “Fa pensare a molto sangue. Questa volta non potremo fare a meno di usare la forza”. L’operazione si chiamava Piano Bianco.
Le unità erano state messe sul piede di guerra, il punto di non ritorno era arrivato.
- PIANO BIANCO
Fin dalla primavera del 1939 il piano tedesco di invasione della Polonia era stato elaborato con un obiettivo strategico ben definito che andava al di là del corridoio di Danzica: secondo l’imbianchino criminale biso- gnava distruggere la Polonia come popolo, per cui il massacro dell’élite culturale era il minimo che si potesse fare per togliere alla Polonia qual- siasi speranza nel futuro.
“Ogni guerra costa sangue e l’odore del sangue risveglia negli uomini tutti gli istinti che albergano in noi fin dai primordi: brutalità, follia omicida, e tanti altri. Tutto il resto è futile chiacchiera.
Una guerra che non sia spietata esiste solo in cervelli esangui”. Così parlò Hitler ai suoi generali nell’agosto del 1939.
La notte del 31 agosto tutto era pronto.
La direttiva inviata dal Führer alle forze armate era chiara più della sua balbettante messinscena vittimista:
“visto che non possiamo trovare nessun mezzo pacifico per porre ter- mine alla situazione intollerabile sulla frontiera orientale…l’attacco alla Polonia dovrà essere eseguito secondo le disposizioni previste nel Piano Bianco”
Data dell’attacco:
1° settembre 1939
ora d’attacco: 04:45
Situazione intollerabile per la Germania? Che sarà mai?
Anche qui poca fantasia, ma molta attitudine verso il crimine. I nazisti, non si inventavano proprio niente.
Bastava organizzarsi, per una carneficina coi fiocchi.
Da sei giorni Alfred Naujocks, intellettuale delle SS, figlio di un dro- ghiere di Kiel, si trovava in quel di Gleiwitz, sulla frontiera polacca, in attesa di effettuare un attacco simulato polacco contro la stazione radio tedesca di quella cittadina.
Ci dovevano essere tanti finti attacchi polacchi alla povera Germania, che a sua volta, sarebbe stata nel diritto di contrattaccare: la principale delle mistificazioni doveva avvenire appunto a Gleiwitz.
Uomini delle SS, con uniformi polacche, cominciarono a sparare contro la stazione radio tedesca.
Erano stati portati dei detenuti, drogati, che erano internati nei campi di concentramento con uniformi tedesche.
Dopo una breve sparatoria gli uomini di Naujocks entrarono nell’edifi- cio e lo occuparono il tempo necessario per trasmettere un comunicato in lingua polacca in cui in pratica si legittimava lo stato di guerra fra Polonia e Germania.
Sull’episodio c’era la lunga mano di un criminale tra i più amati da Hit- ler: Reinhard Heydrich, capo del servizio segreto tedesco, che il 10 ago- sto aveva incontrato Naujocks per concordare l’azione.
Vediamo come lo racconta Laurent Binet ne “Il cervello di Himmler si chiama Heydrich”, Torino 2011: “Sono passati quattordici giorni da quando lo Sturmbannführer delle SS Alfred Naujocks è arrivato in in- cognito nella città di Gleiwitz, alla frontiera fra Germania e Polonia, nella Slesia tedesca: ha minuziosamente preparato il suo misfatto e ora attende. Heydrich lo ha chiamato ieri a mezzogiorno, per chiedergli di definire un ultimo particolare con” Gestapo” Muller, che si è spostato di persona e alloggia nella vicina città di Oppeln.
Muller deve conferirgli il cosiddetto “barattolo di conserva”.
“Sono le quattro del mattino quando suona il telefono nella sua camera d’albergo. Afferra il ricevitore, gli chiedono di richiamare la Wilhelm- strasse.
All’altro capo del filo la voce acuta di Heydrich gli dice “la nonna è morta”. È il segnale che l’operazione Tannenberg può iniziare”.
A Varsavia si nutriva la speranza di un intervento francese.
Le speranze andarono deluse ben presto, non solo i francesi non attac- carono, ma a Est i sovietici entrarono in territorio polacco.
E che l’intervento francese e inglese era considerato una grazia divina ce lo spiega W. Szpilman: ne “Il pianista, op. cit. pag. 30
“Apprendemmo così che non avremmo più dovuto affrontare da soli il nostro nemico: avevamo un alleato potente e la guerra sarebbe stata si- curamente vinta, sia pur fra alti e bassi, sicché la nostra situazione nell’immediato non sarebbe migliorata. È’ difficile descrivere ciò che provammo nel sentire quel comunicato alla radio.
Mia madre aveva le lacrime agli occhi, mio padre singhiozzava senza vergogna e mio fratello Henryk ne approfittò per sferrarmi un pugno e per dirmi in tono irato: “ecco, te l’avevo detto, no?”.
La campagna militare fu senza storia: 14 divisioni corazzate tedesche fecero la differenza con la cavalleria polacca!
E poi la presunzione dei polacchi fece il resto.
Invece di organizzare linee difensive, il comando polacco aveva prepa- rato contrattacchi che non ebbero nessun esito.
Le forze d’invasione meccanizzate naziste non faticarono molto a tro- vare direttrici di avanzata.
bollettino tedesco n. 1
Dietro ordine del Führer, capo supremo dell’esercito, le forze armate hanno assunto la difesa attiva del Reich.
Nell’adempimento del loro compito di arrestare la violenza polacca, stamane le truppe sono passate al contrattacco lungo tutti i confini te- desco-polacchi.
Contemporaneamente squadre dell’aviazione sono partite per colpire obiettivi militari in Polonia. La marina da guerra è incaricata della pro- tezione del Mar Baltico.
bollettino polacco n. 1
Il 1° settembre 1939, nelle ore 05:00 del mattino, con un attacco inatteso di aviazione e di truppe, i tedeschi sono penetrati nel nostro territorio senza dichiarazione di guerra.
Cfr. ed. it. a cura di Enzo Biagi, La seconda guerra mondiale, segreti, docu- menti, fotografie, Periodico settimanale, n. 1, Milano 1963
1939 roma, 1° settembre
Alle ore 15.00 al Viminale si tirò un sospiro di sollievo.
Mussolini, riunito il Consiglio dei ministri mostrò il telegramma di Hit- ler che rinunciava al concorso militare dell’Italia.
Alla fine della riunione si annunciò al popolo che l’Italia non sarebbe entrata in guerra.
Eppure l’agosto per Benito Mussolini è stato torrido in tutti i sensi… e val bene di soffermarsi sull’altra figura chiave dell’aggressione nazi-fa- scista alla democrazia.
Il Duce, secondo il Diario di Ciano, in quel mese era nervoso, ango- sciato, cambiava idea quasi tutti i giorni.
Oggetto: entrare in guerra con la Germania… o no?
cominciamo dal 13 agosto.
Quando Ciano andò a fare visita al cavaliere d’Italia, Benito Mussolini a palazzo Venezia, il Duce prima disse al genero che non sarebbe en- trato in guerra, poi che l’onore lo obbligava a marciare con la Germania. Sembrano lontani i tempi in cui Mussolini diceva con aria di sfida e superiorità che i ministri del suo governo “erano una lampadina elet- trica, io l’accendo e la spengo a mia volontà.”
A Palazzo Venezia mancava ogni tipo di decisione.
14 agosto
Ciano scrive nei suoi diari” Trovo Mussolini pensoso. Io non esito ad eccitare in lui ogni reazione antigermanica e con ogni mezzo. Gli parlo del suo prestigio scosso e della sua posizione di secondo poco brillante e soprattutto gli consegno una documentazione che prova la mala fede germanica nella questione polacca. L’alleanza è stata conclusa su pre- messe che essi rinnegano adesso, sono essi i traditori e non dobbiamo avere scrupoli a piantarli in asso. Ma Mussolini ne ha ancora molti”.
15 agosto
Mussolini e Ciano discussero sei ore, e Ciano annotò: “Il Duce è entrato nell’ordine di idee che è impossibile marciare a occhi bendati con la Germania…”.
Mussolini e Ciano si trovavano su posizioni differenti: Ciano, offeso dalla malafede dei tedeschi che una ne dicevano e cento ne combina- vano, era decisamente contro l’alleanza coi nazisti, il Duce non vedeva alternativa a quell’accettazione.
Il clima a Roma era ottimo. Come annotò cinicamente Ciano, anche gli pseudo guerrafondai come Starace e Alfieri si alzarono dal tavolo della riunione soddisfatti a tal punto da ringraziare il genero del Duce per aver reso un ottimo servizio al paese.
Eravamo alla solita commedia e per ora tutto filava liscio.
Mentre si stava svolgendo il consiglio dei ministri giunse una nuova lettera di Hitler a Mussolini. Era meglio leggerla attentamente quella lettera, tanto per non farsi prendere da facili entusiasmi.
Hitler scrive in pratica che sosterrà la lotta con tutto il fanatismo di cui è capace il popolo tedesco. Poi ringrazia Mussolini per la sua opera me- diatrice, che non è servita a nulla per la malafede del governo polacco, che avrebbe potuto mediare in qualsiasi momento.
Infine il solito ritornello del criminale mentitore: i tedeschi in Polonia sono stati maltrattati, mentre in Germania ai polacchi non è stato fatto niente…
Abbiamo già parlato dell’atmosfera berlinese che contrastava con l’en- tusiasmo dei leader nazisti.
Alla sera durante l’allarme aereo la gente riparava nei rifugi, appena finiti di costruire quel pomeriggio; mancava spirito di corpo, c’erano velate, poi non tanto, critiche a chi aveva portato la Germania ad una nuova guerra.
E la Gestapo aveva il suo bel daffare a zittire i malumori.
I berlinesi si godevano la fine dell’estate, ma i volti sorridenti erano davvero pochi: tutti si chiedevano cosa avrebbero fatto Francia e Inghil- terra.
Insomma a Berlino non si scatenò nessuna febbre bellica, nessuna ecci- tazione.
Si noti il paradosso. Quando l’Italia entrerà in guerra vi sarà l’adunata oceanica in piazza Venezia, il discorso di Mussolini è passato alla storia.
Gli italiani sembravano tutti entusiasti di entrare in una guerra che nes- suno voleva, i dubbi e le perplessità stavano tutti nella testa dei diri- genti fascisti.
In Germania, nessun dubbio nella testa dei nazi, ma sembra che il po- polo non volesse la guerra.
- IL SOGNO DI UN BAGNO DI SANGUE
Tutto si svolse come in un sogno.
Prima lo spavento per il richiamo dei riservisti, la soppressione dei treni viaggiatori, le restrizioni alimentari e l’introduzione delle tessere con la nazione allarmata che si vedeva rigettata nelle tragiche giornate del 1917.
Quindi il cielo sopra la Polonia che all’improvviso si oscurò.
Sulle teste dei polacchi cominciarono a cadere tonnellate di bombe.
In poche ore tutto il territorio fu messo a ferro e fuoco e Varsavia in quanto capitale, fu oggetto immediatamente di un attacco di inaudita ferocia da parte della Wermacht e degli Stukas.
Le autoblindo tedesche operavano a tenaglia, seguite dalla fanteria, ef- fettuavano abili manovre, schiacciavano, massacravano proprio come sognava Hitler, proprio come desiderava Goebbels, proprio come Himmler e Göring si erano ripromessi di fare nelle loro suppliche al loro dio della guerra e della morte.
Non inizia solo la seconda guerra mondiale, è l’inizio di quello che do- veva essere la fine della civiltà greco-cristiana: la trasmutazione dei va- lori nicciana era diventata filosofia della prassi, filosofia dello stermi- nio.
Il 3 settembre l’Inghilterra dichiarava guerra alla Germania, sei ore dopo gli inglesi, subito molto decisi, fu la volta della Francia, non al- trettanto determinata.
Il metodo di Hitler fu quello del Blitzkrieg, cioè della guerra lampo. Più che della guerra lampo qui si fecero le prove generali dello sterminio in Russia e nell’Est europeo. Ma questa volta non si trattava di un bluff come quello del 26 agosto, quando Hitler aveva annullato l’ordine di attacco alla Polonia delle ore 04:30 del 27 agosto.
“Per la prima volta, questa notte, truppe regolari polacche hanno aperto il fuoco contro il territorio del Reich. A partire dalle 05:45 noi abbiamo risposto al fuoco, d’ora in poi alle bombe replicheremo con le bombe”, latrano i nazisti “vittime” della violenza polacca.
La condanna a morte della Polonia era stata decretata da Hitler il 23 maggio 1939.
Durante una riunione coi suoi generali il Führer aveva detto: “(…) Si- gnori, non aspettatevi una ripetizione dell’affare Cecoslovacco. Questa volta avrete la guerra. Ho giudicato i loro capi a Monaco, Daladier, Chamberlain dei vermiciattoli.”
Immediatamente in tutto il mondo si ebbe la sensazione che non era scoppiata solo una guerra, ma un vero e proprio massacro di civili e innocenti.
Nell’invadere la Polonia Hitler era intenzionata a iniziare la sua politica di terrore e morte in Europa, per batterlo non ci volevano solo eserciti preparati, ma soprattutto occorrevano uomini realmente democratici e antifascisti, buoni sì, onesti pure, ma disposti a usare la violenza e la forza.
Anche se i polacchi avevano dichiarato di non temere l’esercito tedesco, questi, seppur ancora non al meglio, fece a pezzi i polacchi in poche settimane.
L’esercito tedesco, comandato da Walter Von Brauchitsch, contava cin- que armate ripartite in due gruppi:
- gruppo delle armate del Nord, comandato da Fedor Von Bock;
- gruppo delle armate del Sud comandato da Gerd Von
Il primo gruppo comprendeva l’armata di Günther Von Kluge, forte di 20 divisioni e l’armata di Georg Von Küchler, composta da dieci divi- sioni.
Il secondo gruppo comprendeva le armate dei generali Johannes Bla- skowitz, Walter Von Reichenau, Wilhelm List, distribuite a semicerchio da Francoforte sull’Oder alla Slovacchia.
Al gruppo delle armate del Nord era stata aggregata un ‘armata aerea al comando del gen. Albert Kesselring, al gruppo di armate Sud una equivalente forza aerea al comando del gen. Alexander Löhr.
La Germania era così schierata: 1.200.000 uomini ripartiti in 70 divi- sioni, delle quali solo 46 in linea, le altre in riserva d’armata e in riserva generale.
Di queste settanta divisioni dieci erano blindate, quattro motorizzate, tre di montagna.
Lo stesso Hitler aveva ordinato che tre divisioni di SS denominate “te- sta di morto” seguissero l’avanzata della fanteria per instaurare quelle che venivano chiamate misure di ordine e di pulizia. Su una vettura ferroviaria si poteva leggere: “Andiamo a bastonare gli ebrei”
- LE BESTIE
Nelle retrovie delle cinque armate della Wehrmacht che avevano in- vaso il paese entrarono in azione altrettanti Einsatzgruppen, organiz- zati da Heydrich.
Il termine, secondo una traduzione abbastanza precisa, significava “Gruppi d’azione”.
“Ma la parola Einsatz racchiudeva anche una particolare sfumatura, che richiamava un che di cavalleresco, una sfida da raccogliere.
Le squadre venivano reclutate dal Sicherheitsdienst di Heydrich (l’S.d. ovvero servizio di sicurezza) ed erano perfettamente al corrente che il loro mandato era molto ampio.
Il loro comandante supremo sei settimane prima aveva detto al gene- rale William Keitel che “nel governo Generale della Polonia, ci sarà ine- vitabilmente una lotta tenace per la sopravvivenza nazionale che non consentirà alcuna remora di ordine legale”. I soldati dell’Einsatz sape- vano che nella pomposa retorica dei loro capi, la lotta per la sopravvi- venza nazionale significava guerra razziale, così come Einsatz, nono- stante le sue implicazioni cavalleresche, significava la canna infuocata di un fucile”
Cfr. Thomas Keneally, La lista di Schindler, Milano 2010, pag. 46
Ognuna di queste forze speciali era suddivisa in quattro Einsatzkom- mandos di cento, centocinquanta uomini ciascuno.
Insieme alle SS, alla polizia ordinaria, e alle teste di morto qualcosa come ventimila uomini.
Qui, come abbiamo già citato, si distingueva Reinhard Heydrich, la “Bestia Bionda”, un ex ufficiale di marina, alto, con la faccia cavallina, un eterno sogghigno. Costui era famoso per la sua pignoleria, schedava praticamente tutto
Soprattutto i nemici del partito.
E la Bestia Bionda diventò un grandissimo stratega del terrore, tanto che Hitler stravedeva per quel giovanotto pieno di belle speranze.
In una nota informativa consegnata ai responsabili degli Einsatzgrup- pen Heydrich dava le direttive sulla “questione ebraica nei territori oc- cupati”
Nel breve periodo, scriveva la Bestia Bionda “i territori della Polonia dovevano essere epurati dagli ebrei, che andavano deportati a Est, mentre nel resto del paese gli ebrei dovevano essere concentrati nei ghetti di città dotate di buoni collegamenti ferroviari”.
C’era una spiegazione razionale allo sterminio in atto contro la popola- zione polacca?
Sì e no. Una signora inglese, che si trovava nella cittadina di Bydgoszcz, vide che le prime vittime della campagna furono numerosi boy-scout, dai dodici ai sedici anni, che vennero allineati contro il muro della piazza del mercato e fucilati. Secondo la signora non fu data nessuna spiegazione. Spararono anche ad un sacerdote devoto, soccorso a som- ministrare l’estrema unzione.
Contro questa armata la Polonia poteva allineare dalle 40 alle 60 divi- sioni, se fosse stato possibile mobilitare tutte le truppe entro il primo settembre, ma i polacchi si fecero trovare completamente impreparati dal Blitzkrieg tedesco.
Pronte per la battaglia, infatti, vi erano solo 2 divisioni di fanteria e otto brigate di cavalleria.
L’armata polacca, dovendo difendere un territorio di circa 400.000 km2 di superficie, senza frontiere naturali, spendeva il 40% del suo bilancio in spese militari.
Solo che il sistema di difesa era antiquato, ancora nelle condizioni della prima guerra mondiale.
Allo scoppio delle ostilità si capì subito che la guerra contro la Polonia sarebbe durata poco da parte tedesca.
E la sera del primo settembre in pratica l’aviazione polacca non esisteva più.
Il giorno 3 settembre, giorno in cui Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla Germania, la quarta armata proveniente dalla Pomerania aveva già preso contatto con la terza che avanzava dalla Prussia orien- tale, che aveva tagliato il corridoio polacco di Danzica.
Il successo dell’invasione era assicurato anche dalla supponenza dei co- mandi polacchi che avevano fatto di tutto per perdere la guerra.
Non avevano un piano adeguatamente difensivo, nella loro scellerata sicumera avevano previsto di attaccare la Germania e farne un boccone. Ben presto si dovettero ricredere.
Dalle montagne ceche le autoblindo del generale List si diressero a me- dia velocità in direzione di Cracovia, al centro il generale Von Reiche- nau guidò anch’egli una massa considerevole di mezzi corazzati.
La prima settimana di combattimenti vide gli invasori tedeschi demo- lire le principali difese polacche. Nella seconda settimana il grosso delle forze polacche fu circondato o ricacciato indietro, mentre unità tede- sche combattevano alla periferia di Varsavia.
I combattimenti durarono cinque settimane.
Una colonna di carri armati tedeschi raggiunse la periferia della capi- tale, Varsavia, il 9 settembre.
E proprio il 9 settembre il colonnello Eduard Wagner discusse il futuro della Polonia con il capo di Stato Maggiore dell’esercito tedesco, il ge- nerale Franz Halder.
“È intenzione del Führer e di Göring” scrisse Wagner nel suo diario, di “distruggere e sterminare la nazione polacca, più di così in uno scritto non si può aggiungere”.
Il giorno dopo, il 10 settembre, il programma veniva attuato nei minimi particolari.
Un gruppo di SS, dopo aver ordinato a 50 ebrei di lavorare tutto il giorno alla riparazione di un ponte, li aveva spinti contro una sinagoga e li aveva uccisi. Si parlava di un’orgia di massacri, almeno a sentire i
vari generali che denunciavano perplessità morali sulla conduzione della guerra.
L’unica crisi del conflitto da parte tedesca si verificò il 7 settembre quando una delle armate polacche di Poznan, una di quelle accerchiate a Ovest della Vistola, fece dietro front e attaccò alle spalle l’ottava e la decima armata tedesca, infliggendo gravi perdite soprattutto alla tren- tesima divisione.
Il 17 settembre Varsavia era già accerchiata. Per debellare la resistenza iniziarono bombardamenti che portarono il terrore all’interno della ca- pitale: il quartiere ebraico venne attaccato dal cielo, le sinagoghe anda- rono in fiamme.
Durante la campagna militare intorno a Varsavia gli Einsatzgruppen avevano impiccato gli ebrei nelle sinagoghe della Slesia. Torturato i loro corpi. saccheggiato le loro case nelle sere del Sabbath o nei giorni festivi, incendiato i loro scialli da preghiera. La devastazione della capitale po- lacca avvenne nel capodanno ebraico, tanto per non farsi mancare nulla in fatto di crudeltà gratuita e di simbolismo a buon mercato. E qui nac- que il primo accenno di antifascismo sentito come gesto al servizio della civiltà.
“Entro il 14 settembre i mezzi corazzati e la fanteria della Wehrmacht avevano circondato Varsavia e i tedeschi consegnarono sotto una ban- diera bianca la richiesta di resa incondizionata. Ma invece che darsi per vinta la gente di Varsavia cominciò a fortificare la città.
Uomini, donne e bambini lavorarono di notte per scavare trincee in par- chi, campi da gioco e terreni sgombri. La ricca aristocrazia si fece por- tare in macchina in luoghi di difesa dove lavorò duramente insieme con altri cittadini (…)”.
Cfr. Norman Davies, La Rivolta, Varsavia 1944 – La tragedia di una città fra Hitler e Stalin, Milano, 2004 pag. 10
I tedeschi furono accolti dalla guerriglia nelle strade di tutta la popola- zione che lanciava contro i carri tedeschi stracci incendiati: il tutto ve- niva accompagnato alla radio da brani di “una polacca di Chopin”.
Quando quel bandito di Hitler entrò in Varsavia il 5 ottobre l’aveva fatta radere al suolo dalla sua aviazione non potendo sconfiggere i po- lacchi come pensava.
Nel diario di Goebbels è chiarissimo quello che il Führer pensava dei polacchi, assimilati agli animali più che agli esseri umani.
Considerati primitivi, stupidi e amorfi. Con una classe dirigente che era l’insoddisfacente risultato dell’unione fra la classe inferiore e la classe superiore ariana. Per Hitler la sporcizia dei polacchi era inimmagina- bile e le loro capacità di fare ragionamenti intelligenti assolutamente nulla.
- POLONIA OCCUPATA: SS E NKVD
Oscar Schindler conobbe Itzhak Stern dopo sole sette settimane dall’in- staurazione del nuovo ordine in Polonia. E Stern aveva già conosciuto il significato degli editti restrittivi la razza ebraica, emanati da Hans Frank, governatore generale della Polonia. Stern, oltre a dichiarare le proprie origini, doveva portare il cartellino di riconoscimento della stella gialla ben visibile sul davanti. Le disposizioni che vietavano la preparazione di cibi ebraici trovavano Stern a disagio di fronte alla pos- sanza di Schindler; in fondo ad un polacco ebreo toccava poco più della metà della porzione che toccava ad un polacco normale, anch’egli con- siderato subumano.
A proposito vediamo come la Gestapo organizzò la classificazione dei subumani e degli umani in Polonia durante i primi mesi di occupazione nazista.
La prima divisione, la più naturale divisione fra gli uomini e le donne e i bambini, era fra quelli che dovevano morire e quelli che dovevano restare in vita.
gruppi razziali:
Tedeschi del Reich 2.613 calorie al giorno, etnia tedesca 2.613 calorie. Non Tedeschi, ma idonei alla germanizzazione 669 calorie al giorno, razza mista 669.
Non Ariani – Subumani: non tedeschi, non idonei alla germanizza- zione, Ebrei per discendenza, Omosessuali, Zingari, portatori di handi- cap, malati incurabili 184.
Ci fermiamo qui, per ora.
Durante il processo di Norimberga sarà Hans Frank a dichiarare: “Non basterà un migliaio di anni a purificare la Germania dalle sue colpe”. Ma torniamo a Oscar Schindler. Quando Stern lo incontrò per la prima volta dichiarò:” devo dirle signore che sono ebreo”.
“Bene, borbottò Herr Schindler.” E io sono tedesco. Ed eccoci qua”. Oskar Schindler e Stern entrarono subito in sintonia, avevano parecchie cose in comune anche se apparentemente le distanze culturali fra i due sembravano abissali: (…) in un momento come quello, continuò Herr Schindler, per niente al mondo avrebbe voluto essere un prete, visto che la vita umana non aveva nemmeno il valore di un pacchetto di si- garette. Stern si dichiarò d’accordo, ma suggerì nello spirito della di- scussione che il riferimento fatto da Herr Schindler poteva essere rias- sunto in un verso talmudico, secondo il quale chi salva la vita di un solo uomo salva tutto il mondo”.
Cfr. Thomas Keneally, op. cit. pag. 37
Per completare il quadro il 17 settembre due gruppi di armate sovieti- che mossero verso la linea di demarcazione prevista dal patto di non aggressione tedesco-sovietico del 23 agosto del 1939 che consentiva alle truppe di Stalin di poter assumere il controllo del territorio a Est.
Circa 217.000 polacchi caddero in mano ai sovietici.
E l’opportunismo di Stalin (eufemismo) lasciava piuttosto a desiderare, anzi fu un atto di vera criminalità contro il popolo polacco.
Comunque in Polonia andò così, secondo le tesi di Cristopher Andrew e Oleg Gordievskij nella loro Storia del KGB.
Riassumendo: “mentre la Gestapo organizzava la persecuzione dei ne- mici della razza, NKVD organizzava la persecuzione dei nemici di classe. I decreti emanati nel 1940 dalle autorità sovietiche colpivano in- nanzitutto trotzkisti e altri eretici del marxismo: quindi si colpiva la borghesia terriera, l’aristocrazia, sacerdoti attivi nella politica parroc- chiale, impiegati di concetto dello stato (…)
Come disse il capitano Anders il compito di “decapitare la comunità” era il principale obiettivo della polizia sovietica. Furono deportate mi- gliaia di persone in Siberia e Kazakistan, quando l’URSS venne invasa dai nazisti nel 1941 ci fu un’amnistia, peccato che la metà dei deportati era morta.
Quindicimila ufficiali polacchi perirono in campi di sterminio vicini alla patria. Il 9 aprile del 1940 a Katyn vicino a Smolensk il maggiore Solski redige un diario.
L’ultima annotazione così recita: “Siamo arrivati in un piccolo bosco che sembra un campeggio di vacanza. Ci hanno tolto gli anelli e gli oro- logi, che segnavano le 06:30 del mattino, anche le cinture e i coltelli. Che cosa sarà di noi?”
Tre anni dopo il cadavere di Solski con il diario ancora in tasca, fu sco- perto dalle truppe tedesche insieme ai corpi di altri 4.000 ufficiali nelle fosse comuni della foresta di Katyn. Molti di loro avevano le mani le- gate dietro la schiena e una pallottola nella nuca. Tra le vittime della NKVD c’erano anche alcuni comunisti polacchi sopravvissuti alle pur- ghe di Mosca.
Cfr. Christopher Andrew, Oleg Gordievskij, La Storia segreta del KGB, le ope- razioni internazionali del servizio di spionaggio più famoso e temuto al mondo, Milano 1991, pagg. 252 e ss.
Chiuse nella morsa da nazisti e sovietici, le truppe polacche continua- rono a battersi con onore, anche se dietro le linee le atrocità naziste erano sempre più crudeli e ripugnanti.
Persino l’Ammiraglio Wilhelm Canaris, capo dei servizi segreti delle forze armate tedesche, protestò presso Hitler che non lo degnò nem- meno di una risposta. Le teste di morto delle SS parlavano di operazioni di polizia e sicurezza, in realtà era iniziato quello sterminio razziale che rimane una vergogna incommensurabile nella storia dell’uomo.
Così la Polonia si dissanguava fra le proteste del mondo libero imbelle, ma anche, come abbiamo più volte sottolineato, fra il disagio delle truppe combattenti in terra polacca.
Lo scopo finale della politica tedesca verso gli ebrei, ricordò Heydrich, non solo doveva essere tenuto strettamente segreto, ma avrebbe con- dotto alla soluzione finale. La Polonia andava ripulita dagli ebrei.
“In quel periodo iniziale, la collera contro il governo e il comando mili- tare, entrambi fuggiti abbandonando il paese al proprio destino, era in genere più forte dell’odio contro i tedeschi.
Ricordavamo con amarezza le parole del feldmaresciallo, il quale aveva giurato che non avrebbe permesso al nemico di strappargli anche un solo bottone dell’uniforme: promessa mantenuta, infatti, ma solo per- ché i bottoni erano rimasti attaccati all’uniforme che indossava quando aveva tagliato la corda per fuggire all’estero.
E secondo l’opinione di certuni ora saremmo stati addirittura meglio, perché i tedeschi avrebbero portato un po’ di ordine in quel caos che era la Polonia.
Ma i tedeschi, invece che avevano vinto la guerra guerreggiata contro di noi, cominciarono ora a perdere la guerra politica. Un punto di svolta cruciale fu la fucilazione dei primi cento innocenti cittadini di Varsavia, nel dicembre del 1939.nel giro di poche ore era stato eretto un muro di odio fra tedeschi e polacchi e né gli uni né gli altri da quel momento riuscirono più a scalarlo, anche se durante gli ultimi anni dell’occupa- zione i tedeschi mostrarono una certa disponibilità a farlo”.
Cfr. W. Szpilman, il Pianista, op. cit. pagg. 49, 50
Non per tutti i polacchi la guerra contro i nazisti fu una tragedia: il col- laborazionismo degli occupati desiderosi di ingraziarsi i nuovi padroni della croce uncinata cominciò proprio in Polonia: “La popolazione po- lacca prese immediatamente a ingraziarsi i tedeschi. Per salutare le loro truppe costruì un arco di trionfo decorato con una svastica, un ritratto di Hitler e la scritta: ”Lunga vita all’esercito tedesco, che ci ha liberato dalla tremenda morsa della combutta ebraica (…)
Il 24 i tedeschi ordinarono a tutti gli uomini di riunirsi presso la Sina- goga: Gli ebrei capirono subito che cosa significava. Cominciarono a scappare dal paese, ma i polacchi che sorvegliavano tutte le vie, ripor- tarono indietro i fuggiaschi (…)
I tedeschi iniziarono a impartire lezioni di “buone maniere” verso gli ebrei. Le” lezioni” si tenevano al cospetto di numerosi polacchi. I sol- dati ordinarono agli ebrei di portare fuori dalla Sinagoga e dalla casa di preghiera tutti i sacri testi della Torah, ciò che fu fatto, e di bruciarli. Quando gli ebrei opposero un rifiuto a questo secondo ordine, i tede- schi li obbligarono ad aprire i rotoli della Torah e a cospargerli di che- rosene; poi appiccarono il fuoco. Ordinarono agli ebrei di cantare e dan- zare attorno all’enorme falò. Gli ebrei che danzavano erano al centro di una folla che li irrideva e li picchiava a volontà (…) L’aria era lacerata dalla grida di dolore. Ma insieme a quelle grida si sentivano anche le allegre risate dei sadici polacchi e tedeschi seduti sui carri.
Cfr. Jan T. Gross, I carnefici della porta accanto, il massacro della comunità ebraica di Jedwabne in Polonia, Milano 2003, pagg. 50, 51
- CITTA’ DEL VATICANO
All’indomani dell’aggressione tedesca alla Polonia gli ambasciatori di Francia e Gran Bretagna intervennero presso la Segreteria di stato vati- cana per chiederne una condanna. Il clima era teso, ovviamente, perché il cardinale Maglione, segretario di stato, avrebbe osservato: ” i fatti parlano da soli, lasciamoli parlare.”
I tedeschi interpretarono l’atteggiamento vaticano a loro favore, soste- nendo che era chiaro il rifiuto del Papa a denunciare la guerra di ag- gressione tedesca.
Questo atteggiamento nazista, però, non spiega fino in fondo la posi- zione della Santa Sede che fece comunque scalpore nelle ambasciate an- glo-francesi. Non bisogna dimenticare lo sforzo della Santa Sede di evi- tare di compromettersi nei conflitti internazionali, in quanto conflitti politici che miravano all’odio fra i popoli.
Ma il primo settembre sull’Osservatore Romano compariva un tenta- tivo di analizzare i fatti al di là degli interessi di parte.
Individuava quindi da parte della Germania l’affermazione del princi- pio di nazionalità per Danzica e dello spazio vitale in vista di una revi- sione del trattato di Versailles da parte dell’Inghilterra e della Francia.
Si attribuiva, inoltre, fra le questioni di principio, quello dell’onore per quanto riguarda i rapporti intercorsi fra Polonia, Francia e Inghilterra. Come dire che tutti avevano ragione o tutti torto allo stesso modo.
Il comportamento di Papa Pacelli, Pio XII, in quei giorni è stata oggetto di feroci polemiche mai sopite.
La questione non si può esaminare in questa sede, ma non bisogna nem- meno far finta che nulla sia accaduto Oltretevere.
Per cui nel miscuglio antifascista non si può ignorare l’appello alla pace del Papa prima dello scoppio della guerra: “Niente è perduto con la pace, tutto è perduto con la guerra”.
Insomma si guardava ancora una volta al senso all’accordo di Monaco come al fatto che poteva far finire la guerra appena iniziata. Era un alibi per l’Occidente, e pure per l’antifascismo che non si era ancora espresso in modo unitario e combattente.
Valutando qui di seguito le reazioni da parte Occidentale alla guerra tedesca si può notare come, pur fra mille titubanze, Francia e Inghilterra iniziarono a collaborare a quel fronte democratico e antifascista che fu essenziale per la sconfitta del Male Assoluto.
L’attacco tedesco era iniziato alle 05:45 del primo settembre.
L’ambasciatore britannico Sir Neville Henderson si recò al ministero degli esteri tedesco sulla Wilhelmstrasse alle 21:00 per consegnare una nota ufficiale del governo inglese. Qui di seguito il testo: “Su incarico del Ministro degli affari Esteri di Sua Maestà e del ministro per gli affari Esteri francese, ho l’onore di fare la seguente comunicazione.
Oggi, nelle prime ore dell’alba, il cancelliere del Reich ha lanciato un appello alle forze armate tedesche dal quale appare chiaro che è in pro- cinto di attaccare la Polonia. Dalle notizie pervenute al governo di sua maestà britannica e al governo francese risulta che truppe tedesche hanno varcato la frontiera e che sono in corso attacchi contro città po- lacche (…)
Sono pertanto incaricato di comunicare a sua eccellenza che il governo di sua Maestà e il governo francese adempiranno senza indugio agli impegni assunti con la Polonia, qualora il governo tedesco non sia di-
sposto a dare al Regno Unito e alla Francia sollecite e soddisfacenti ga- ranzie di sospendere qualsiasi azione aggressiva contro la Polonia e di ritenersi pronto a ritirare le proprie truppe dal territorio polacco”.
A cura di E. Biagi, Storia della seconda guerra mondiale, op. cit. vol. 1
Hitler nel corso della campagna di Polonia aveva parlato di un Dio on- nipotente che aveva dato la benedizione alle armi naziste. Era l’inizio della immensa strage.
- LA STRAGE STRATEGICA
La strage in Polonia non fu un eccesso nazista, la guerra per Hitler vo- leva dire la liquidazione dei giudei e dei comunisti.
L’elenco dei crimini è lungo, ma il senso politico è corto: dice che il na- zismo era tutto meno che una scelta all’interno di quello che noi comu- nemente chiamiamo civiltà.
Prima abbiamo visto le stragi all’interno delle cronache di guerra, ora vanno viste all’interno della strategia del nazismo: che era unicamente una strategia di morte.
Forse non si riesce a comprendere pienamente quale sia stata la valenza biologico-razziale della guerra scatenata da Hitler.
Gli alti comandi della Wehrmacht, viene spesso sottolineato, rimasero turbati dagli eccessi delle Einsatzgruppen.
Solo che a renderli inquieti e nervosi su quello che accadeva in Polonia non erano le sofferenze della popolazione ebraica e in generale dei su- bumani massacrati secondo codice etico nazista.
I militari, che prima della caduta di Varsavia avevano compiuto eccidi giustificati dalle esigenze militari dell’azione, temevano che gli eccidi minassero il morale dei soldati e dell’intera popolazione tedesca.
Il loro disappunto era quello che i tedeschi passavano per spietati e cru- deli macellai in tutto il mondo civile, altro che soldati pronti al supremo sacrificio per il Reich!
Per avere un’idea di cosa stiamo parlando, bisogna leggere quello che in un memorandum scrisse Johannes Blaskowitz generale della Wehr- macht che denunciò le atrocità naziste: “è controproducente nel massa- crare qualcosa come 10.000 ebrei e polacchi come attualmente viene (…) Infatti in questo modo né si uccide l’idea di uno stato polacco nella massa della popolazione, ne vengono eliminati gli ebrei. Al contrario: il modo in cui si uccide porta con sé gravissimi danni, complica i pro- blemi e li rende molto più pericolosi che se venissero trattati con mag- giore ponderatezza e sagacia (…)
Alla propaganda nemica viene offerto un materiale che non potrebbe avere maggiore efficacia in tutto il mondo (…)
Non c’è bisogno di far riferimento ancora una volta al ruolo della Weh- rmacht che è costretta ad assistere a questi crimini senza poter reagire (…)
Quando alte personalità delle SS e della polizia pretendono atti di vio- lenza e brutalità e li elogiano pubblicamente, ciò significa che entro bre- vissimo tempo comanderà solo il violento (…).
Richard Rhodes, Gli specialisti della morte. I gruppi scelti delle SS e le origini dello sterminio di massa, Milano 2005.
Himmler, d’altronde, è quasi spiaciuto di quel che accade come il buon Blaskowitz, perché udite, udite come giustifica i massacri in Polonia: “naturalmente può succedere a oriente che un treno – ma non solo quello degli evacuati – si geli e la gente muoia assiderata Può succedere, purtroppo succede anche con i tedeschi. Non si può far niente per im- pedirlo, quando si è in viaggio da Lodz a Varsavia e il treno rimane bloccato per dieci ore sulle rotaie. Non si può prendersela né con il treno, né con nessun altro. È il clima. È spiacevole per i tedeschi, spia- cevole per i polacchi, spiacevole, so proprio si vuole anche per gli ebrei, ammesso che vi sia qualcuno che desideri avere pietà di loro. Ma non è intenzionale, né lo si può impedire. Non è il caso di levare un gran la- mento per questo”.
- Rhodes, op. cit
.
In effetti dopo la capitolazione della Polonia, il 21 settembre, Heydrich emanava l’ordinanza che autorizzava la ghettizzazione degli ebrei po- lacchi.
“Occorre una precisa distinzione fra l’obiettivo finale che richiederà un tempo prolungato e le fasi che porteranno a conseguire l’obiettivo stesso (che possono essere espletate a breve scadenza).
Le misure previste esigono la massima preparazione sia in senso tec- nico sia in senso economico (…)”.
Heydrich continuava: “La prima misura per il conseguimento dell’obiettivo finale è il concentramento degli ebrei dalla campagna alle grandi città. La sua realizzazione dovrà essere immediata”.
Cfr. Daniel Jonah Goldhagen, I volenterosi carnefici di Hitler. I tedeschi co- muni e l’Olocausto, Milano 1998, pag. 157
Alla fine dei 27 giorni di guerra contro la Polonia più di diecimila inse- gnanti, medici, sacerdoti, uomini d’affari vennero uccisi dai nazisti. Si trattava solo della prova generale di quello che sarebbe accaduto in tutta Europa e in particolare nell’Est europeo.
Cosa ne sarebbe stato della Polonia?
Possiamo dire che la spartizione della Polonia fra tedeschi e sovietici mise fortemente in crisi il fronte antifascista.
La Germania in terra polacca, come abbiamo accennato e come ve- dremo in seguito, attuò una politica criminale che l’Unione Sovietica avallò senza batter ciglio.
Nell’ottobre del 1939 furono incorporate nel grande Reich, oltre alle re- gioni perdute nel 1919-1921, e cioè la Prussia occidentale, la Posnania e l’Alta Slesia orientale anche grandi regioni della vecchia Polonia a Nord e a Ovest di Varsavia.
La parte centrale della Polonia fu dichiarata “Governatorato generale”, governatore era l’assassino intellettuale Hans Frank.
Il contenzioso fra la Germania di Hitler e l’Unione Sovietica di Stalin sembrava un dettaglio, in fondo la Polonia era diventata un’espressione geografica.
Non si dimentichi, infatti, che l’invasione dell’Armata Rossa il 17 set- tembre del territorio polacco impedì che le forze polacche organizzas- sero la difesa di Varsavia, approfittando dello stallo delle unità tede- sche.
Foreste e acquitrini della Polonia orientale sarebbero stati una possibi- lità logistica per continuare la guerra da parte dei polacchi. Invece il governo polacco e i soldati rimasti attraversarono di fretta la frontiera con la Romania e la Lituania prima che l’Armata Rossa sbarrasse tute le vie di fuga.
In buona sostanza Hitler e Stalin concordavano sul fatto che era meglio non costituire nessuno stato polacco.
Qualche cosa, però, c’era da discutere perché Stalin riparlò della que- stione con Ribbentrop quando questi si recò un’altra volta a Mosca.
Il georgiano Stalin aveva fiutato una possibilità troppo grande per la Germania di avere uno stato vassallo ai confini con l’Unione Sovietica. Così propose che la Lituania passasse nella zona russa, mentre la pro- vincia di Lublino e una parte della provincia di Varsavia sarebbero state comprese nella zona tedesca.
Il 28 settembre il trattato russo-tedesco di delimitazione e amicizia ri- partì la Polonia secondo i desiderata di Stalin. Il trattato prevedeva inol- tre che i tedeschi residenti in zona russa e gli ucraini e russi bianchi residenti in zona tedesca avrebbero potuto emigrare liberamente da una zona all’altra.
In base a pseudo elezioni, tenutesi all’inizio di novembre del ‘39, le re- gioni orientali della Polonia furono incorporate in parte nella Repub- blica Sovietica dell’Ucraina, in parte in quelle della Russia bianca con la conseguente liquidazione dei nemici del popolo e i nemici di classe di quelle zone di cui abbiamo già in precedenza parlato.
Per concludere abbiamo fatto nostre, non alla lettera, alcune considera- zioni di A. Hillgruber nella sua Storia della 2a guerra mondiale che qui ri- portiamo: Al di là della Polonia Hitler e Stalin alla fine della guerra lampo del settembre 1939 potevano dirsi altrettanto soddisfatti della loro irrituale e strana amicizia.
Anche se non vi era un’alleanza militare, forse un po’ troppo anche per il comunista e il nazionalsocialista più convinti, i favori commerciali erano tanti.
I russi avevano chiesto e ottenuto che i piroscafi tedeschi approvvigio- nassero i loro sommergibili nel Baltico, i tedeschi in cambio avevano chiesto e ottenuto di utilizzare bacini di carenaggio sovietici. Sotto l’aspetto diplomatico, poi, entrambe le potenze avevano chiesto alla Turchia di non firmare accordi con le democrazie occidentali, il Reich aveva raccomandato il Giappone di migliorare le relazioni con l’URSS. L’URSS, poi, aveva protestato contro il blocco britannico su richiesta della Germania. Insomma l’importante era agire contro i mercati dei capitalisti occidentali sintetizzando il sovietismo con un nazionalsocia- lismo di sinistra modello SA e viceversa: la confusione era sovrana e ben presto la strana amicizia risultò mortale ad entrambi perché l’anti- fascismo non era basato solo su calcoli meschini e opportunisti.
Quanto a Stalin, poi, il patto con Hitler lo poneva in una posizione cui aveva sempre aspirato, nella posizione cioè di una potenza estranea alla guerra “imperialistica”.
Al posto dell’immagine traumatica finora predominante di una minac- cia generalizzata proveniente da tutte le potenze capitalistico “imperia- listiche”, poteva subentrare ora in Stalin la consapevolezza di occupare, nella situazione internazionale, la posizione estremamente favorevole di chi ha “l’ultima mano” e di essere rispettato, anzi, corteggiato, da tutti i belligeranti.
Tuttavia nella futura guerra europea – ormai altamente probabile – il sostegno dell’Unione Sovietica avrebbe dovuto ottenerlo la potenza che a giudizio di Stalin appariva più debole, ossia la Germania di Hitler, in modo da impedire che essa fosse immediatamente travolta dal “rag- gruppamento” delle potenze europee occidentali, che era di gran lunga più forte quanto a potenziale, soprattutto se si metteva in conto la pre- senza degli Usa alle sue spalle.
In caso di vittoria, infatti, tale raggruppamento avrebbe spinto la pro- pria sfera d’influenza in Germania e oltre, verso est, fino a lambire l’Unione Sovietica, la quale perciò, si sarebbe trovata in futuro a con- frontarsi con un compatto “blocco imperialistico”.
Nell’interesse dell’Unione Sovietica la guerra doveva durare a lungo e provocare al tempo stesso un reciproco estenuamento dei due “rag- gruppamenti imperialistici”. Solo a questo punto l’Unione Sovietica sa- rebbe stata in grado di intervenire di forza nella fase conclusiva del con- flitto gettando il proprio peso sul piatto della bilancia.
Tutti gli sforzi di Stalin quindi erano rivolti verso questo obiettivo.
- LA FALSA PACE DI HITLER
Mentre la Germania nazista annientava la Polonia e Stalin si creava il suo scudo protettivo antitedesco, la Francia e l’Inghilterra, al di là dello sdegno, non fecero poi molto per aiutare la Polonia.
E sì che c’erano stati accordi ben precisi fin dal 19 maggio del 1939. Poco dopo la rottura del trattato tedesco-polacco, il ministro della guerra polacco si recò a Parigi per incontrare il generale Maurice Ga- melin.
L’intervento della Francia avrebbe dovuto svolgersi in tre tempi se- condo il protocollo d’intesa firmato il 19 maggio: esecuzione immediata di un’offensiva aerea, intervento offensivo su obiettivi limitati, piano offensivo verso il quindicesimo giorno.
Ma Daladier voleva evitare bagni di sangue e ci riuscì.
Basta pensare che nei primi quattro mesi di guerra la Francia nel 1914 aveva perso 450.000 uomini e nei primi quattro mesi del 1939, 1434.
La prudenza francese, dunque, era più che giustificata.
La Francia non aveva grandi unità blindate, non aveva una grande fan- teria motorizzata, non aveva aviazione tattica, né grandi contingenti di paracadutisti.
Anche gli inglesi, pur nella loro caparbia posizione antifascista. ave- vano inviato nel mese di settembre solo 6 divisioni nel continente. Poca cosa di fronte alla linea Sigfrido dei tedeschi.
Una volta conclusa la campagna, la Wehrmacht cominciò a trasferire le sue divisioni vittoriose verso Ovest, per presidiare appunto quella linea Sigfrido che doveva sbarrare la strada a inglesi e francesi, anche se fra l’8 settembre e il 1° ottobre, non aveva fatto quasi nulla per aiutare i polacchi.
E il 6 ottobre Hitler in un discorso a Berlino fece la parte del pacificatore, che tanto piaceva a Mussolini e con più sincerità a tutti i popoli dell’Eu- ropa, che di guerra non ne volevano sentir parlare.
Il Führer sollecitò il riconoscimento della Polonia, la sospensione delle ostilità, l’apertura di negoziati e compensi coloniali.
La suggestione di pace, manipolatrice, truffaldina e grottesca era un modo per continuare la guerra.
Si videro iniziative veramente ridicole, se non fossero state preludio di una tragedia.
“Noi non vogliamo fare guerra ai francesi” vi era scritto sui cartelloni che i tedeschi innalzavano sulla sponda tedesca.
Radio Stoccarda mise in onda slogan propagandistici che si direbbe oggi erano slogan di buonismo a buon mercato tipo” gli inglesi danno le loro macchine, i francesi i loro petti”
E poi, tanto per non farsi mancare nulla, si arrivò al clou della politica spettacolo: aerei tedeschi, sorvolando il massiccio centrale francese lan- ciavano manifestini che riproducevano il discorso del Führer del 6 ot- tobre davanti al Reichstag: “io ho cercato soprattutto di disintossicare i rapporti con la Francia in modo da renderli sopportabili per entrambe le nazioni. Ho già precisato, nella maniera più esplicita, le esigenze te- desche in proposito e non mi sono mai allontanato da questa dichiara- zione…ho rinunciato a riproporre il problema dell’Alsazia-Lorena, non per essere stato costretto, ma perché questo problema non costituisce in alcun modo una questione che possa mai pesare sui rapporti (…) La Francia lo sa.
È impossibile che un solo uomo di stato francese possa dichiarare che io abbia mai presentato alla Francia un’esigenza incompatibile con l’onore della Francia o con gli interessi francesi.”
Cfr. Claude Bertin, La sconfitta della Francia, Ginevra 1972, pag. 35
La propaganda nazista mirava a demoralizzare le truppe francesi.
Il fronte era sorvolato da aerei che lanciavano volantini riproducenti alcuni passi del discorso di Molotov dell’ottobre, i quali gettavano la responsabilità della guerra sui guerrafondai inglesi e francesi.
L’interrogativo che prevaleva su un’opinione pubblica francese ango- sciata per una nuova guerra era “se valesse la pena morire per Danzica o per l’Inghilterra”.
Hitler era ben contento che le potenze” plutocratiche e guerrafondaie” come Francia, Inghilterra e Stati Uniti rifiutassero le sue offerte di pace, così aveva modo di preparare quella guerra totale che era la sua mas- sima aspirazione storica.
E così i tedeschi cominciarono a fare sul serio in fatto di armamenti. Per dispiegare tutta la potenza teutonica era necessario utilizzare le ma- terie prime e importare quelle che riceveva dalla Russia.
Hitler si preparava a fare le cose in grande.
Fra un po’ la guerra fasulla sarebbe stata il migliore dei mondi possibili.
- IL COMPLOTTO DI ZOSSEN
Il Führer voleva fare la guerra alla Francia, attaccare l’Occidente, ven- dicare Versailles, distruggere la Polonia, annientare gli ebrei, pensare a liquidare il comunismo internazionale…
Un po’ troppo per i generali che avevano battuto la Polonia, ma che non
ritenevano la Germania in grado di iniziare una guerra anche a Occi- dente.
Così, come abbiamo visto per quanto riguarda l’autunno del 1938, in occasione della crisi dei Sudeti, si pensò di spodestare il caporale che voleva fare il generale senza averne le physique du rôle.
Franz Halder, generale in capo delle forze armate, pensò di liquidare Adolf Hitler con un colpo di stato.
Se Hitler fosse passato alla guerra vera, i vecchi piani golpisti del 1938 risultavano sempre buoni.
E qui cominciò il balletto delle responsabilità, i voltafaccia, la mancanza di coraggio, i soliti e irrinunciabili equivoci di ogni complotto.
Halder, che comunque voleva evitare il colpo di stato, voleva che Brau- chitsch, andasse da Hitler esponendogli il punto di vista dei generali. Si puntava al colloquio chiarificatore che Hitler aveva concesso a Brau- chitsch per il 5 novembre 1939.
Così il nostro Brauchitsch andò da Hitler dicendogli che il tempo era cattivo, che insomma non si poteva attaccare la Francia con quel tardo autunno da lupi.
Hitler diede una risposta che forse avremmo dato anche noi. Semplicemente rispose che, se il tempo era cattivo, lo era anche per il nemico e che non era detto che in primavera le cose sarebbero andate meglio.
Ma l’errore di Brauchitsch andò oltre.
Il tentennante generale tedesco quando disse al Führer che le truppe avevano il morale sotto i tacchi peggio che nel 1917, il Piccolo Caporale non ci vide più. (Nel 1917 i soldati tedeschi, stanchi della carneficina, cominciarono a disertare, a manifestare segni di insubordinazione ecc.). Secondo il diario di Halder, unica fonte si presume attendibile, Hitler esplose in quei momenti di rabbia da far gelare il sangue.
Hitler urlò: “in quali reparti vi sono stati atti di indisciplina? Come? Dove?”
Si sarebbe recato lui in persona, aggiunse il caporale criminale, a verifi- care lo stato delle truppe.
Brauchitsch, che aveva esagerato nel descrivere la situazione delle truppe per cercare di dissuadere il Führer, fu preso in castagna dagli argomenti inconfutabili di Hitler che con la bava alla bocca aggiunse: “che misure sono state prese dal comando dell’esercito? Quante con- danne a morte sono state eseguite?
La verità è che l’esercito non vuole combattere?”.
A Norimberga Brauchitsch ammise che la conversazione non poté più continuare e che la cosa finì lì.
Bastò dunque un attacco collerico di Hitler a mandare in frantumi il famoso complotto di Zossen, la località del comando dei generali gol- pisti.
Questo successe il 5 novembre.
L’8 novembre, invece, una bomba esplose nella birreria di Monaco ove Hitler si era recato a commemorare il putsch della birreria del 1923.
Hitler e i gerarchi nazisti si salvarono; Himmler e Goebbels cercarono di sfruttare l’episodio dando la colpa ai servizi segreti inglesi che man- tenevano contatti con i generali tedeschi golpisti.
Dell’attentato non si seppe mai nulla di certo.
Fu accusato un certo Elser, un comunista che si trovava nel campo di concentramento di Dachau, che fabbricò la bomba in accordo con la Ge- stapo, facendo finta di essere in combutta con due ufficiali inglesi.
Il processo a Elser non fu mai fatto, e Himmler fece uccidere Elser il 16 aprile del 1945, per non lasciare traccia del finto complotto.
Ci voleva ben altro per far fuori il Signore del Male.
- GUERRA FASULLA E GUERRA VERA
La guerra fasulla, è un’espressione coniata dalla stampa americana. Si- gnifica che quei mesi che intercorsero fra il crollo della Polonia nel set- tembre 1939 e l’inizio dell’offensiva sul fronte occidentale nella prima- vera del 1940 da parte dei tedeschi, furono mesi in cui la Germania da una parte e Francia e Inghilterra dall’altra evitarono di scontrarsi.
Era una tacita tregua, come abbiamo visto, che rientrava nel tentativo hitleriano di parodiare una pace universale per le future sorti dell’uma- nità.
Francia e Inghilterra non sembravano aver nessuna intenzione di fare la guerra, altri sostenevamo che stavano giocando d’astuzia in attesa di tempi migliori.
Anche se è difficile crederlo.
Non per niente quei sette mesi di finta guerra furono battezzati proprio dall’opinione pubblica francese come “drôle de guerre”, guerra finta perché, tranne poche scaramucce, nella terra di nessuno, sul fronte Nord-Est, ai numerosi allarmi non successe mai niente di rilevante.
L’inverno del 1939 fu abbastanza rigido.
Parecchie famiglie francesi avevano dovuto sfollare, la popolazione vi- veva nel timore di subire bombardamenti, ma tutto sembrava avvenire nel quadro di una guerra che fortunatamente era ancora confinata in Polonia.
La confusione era parecchia, d’accordo, e oscillava fra pronunciamenti retorici e patriottardi e disorganizzazione a livello generale.
Le sirene che avvisavano dei bombardamenti tiravano giù dal letto cit- tadini impauriti senza motivo, la gente girava portando a tracolla la
maschera antigas, modello prima guerra mondiale, le opere d’arte erano state messe al sicuro, i portinai erano in pratica diventati i presidi delle cantine adibite a rifugio.
Tutto ciò, però, non portava a nessuna azione, a nessun tangibile atto di voler diventare un serio baluardo antifascista contro l’arroganza na- zista.
Anche i generali tedeschi erano stupiti da tale inattività.
Keitel si dimostrò sorpreso dal fatto che la Francia non avesse attaccato la Germania durante la campagna di Polonia.
Un simile attacco si sarebbe trovato contro 25 divisioni, compresi i ri- chiamati, e non avrebbe incontrato da parte tedesca che una debolis- sima resistenza.
Fu, quindi, con grande stupore che i comandi tedeschi assistettero solo a insignificanti scaramucce nella zona compresa fra la linea Maginot e la linea Sigfrido.
Non si capiva perché la Francia non avesse approfittato dell’occasione unica che le si presentava.
Ciò convinse il Terzo Reich che le potenze occidentali non volessero la guerra.
E qui entrò in scena il capo di Stato Maggiore generale Maurice Game- lin che si sbilanciava solo in proclami eroici dal regno delle retrovie del Castello di Vincennes: “Soldati di Francia! Da un momento all’altro può cominciare una battaglia da cui ancora una volta dipenderà la sorte della Patria.
Il paese, il mondo intero, hanno gli occhi fissi su di voi! In alto i cuori! Alle armi! Ricordatevi della Marna e di Verdun”.
Nonostante questo clima finto di guerra, l’opinione pubblica era affa- mata di notizie e già allora le fandonie in proposito si moltiplicavano. Tutti parlavano di imminenti grandi imprese, ma l’errore più grave era quello di lasciare migliaia di soldati inattivi sul fronte a macerarsi fra noia e angoscia bellica.
Così nel tardo autunno del ’39 tutto tornò alla calma piatta.
La grande offensiva non vi era stata, i grandi freddi fecero stare le truppe nelle baracche in attesa che qualche cantante da Parigi venisse a scaldare il cuore dei futuri eroi.
L’unico che aveva un senso tattico era il generale Charles de Gaulle.
Il 10 gennaio del 1940 successe il fattaccio, meglio uno spiacevole con- trattempo per i nazisti, che vale la pena raccontare.
C’era un freddo polare quel giorno.
Non succedeva niente sul fronte occidentale, i soldati belgi si stavano decisamente annoiando.
Ma all’improvviso la calma assoluta venne violata da un contrattempo, da quello che ormai tutti chiamano colpo di scena.
Un aereo cadde vicino alla baracca dei soldati, esattamente nella località di Mechelen vicino a Liegi.
Quando i militi uscirono dai presidi percepirono immediatamente che vi era stato un disastro aereo, accorrendo sul luogo dell’incidente vi- dero un uomo che stava bruciando delle carte.
Si trattava del maggiore Reinberger, un maggiore di carriera che era stato incaricato di portare, in assoluto segreto, l’ordine di offensiva ad una divisione di paracadutisti fra Colonia e Bonn.
Il maggiore che guidava un Messerschmitt Taifun, proveniente da Munster, trovandosi in mezzo ad un banco di nebbia e credendo di es- sere in Germania, aveva ordinato ad un pilota maggiore della riserva, certo Hoenmanns che pilotava l’aereo, di atterrare anche perché a secco di benzina.
Reinberger si accorse di averla fatta grossa.
Prima dei soldati sul luogo dell’incidente era arrivato un contadino, che non poteva parlare la loro lingua, ma che aveva i fiammiferi per bru- ciare i documenti.
Ecco perché i soldati belgi quando accorsero arrestarono il maggiore e il suo pilota. Poi spensero il fuoco volendo vedere di che cosa trattavano le carte.
I due vennero condotti al posto di guardia in attesa di istruzioni.
E qui ci fu un altro parapiglia degno di nota, ma soprattutto degno di un film di guerra di J. Sturges.
Nella stanza assai stretta arredata spartanamente con un tavolo e due panche, vi era nell’angolo una stufa di ghisa.
Improvvisamente Reinberger, in attesa di essere interrogato, tolse il co- perchio della stufa, afferrò le carte ritrovate che stavano sul tavolo e tentò di bruciarle.
Il capitano che era stato incaricato di interrogare i due prigionieri, an- che stavolta tentò di salvare le preziose carte dalla stufa di ghisa.
Le carte non vollero bruciare e il nostro maggiore rimase un uomo sem- pre più disperato.
Anche perché su uno dei pezzi di carta bruciacchiati era possibile leg- gere: “L’esercito tedesco dell’Ovest condurrà la sua offensiva fra il Mare del Nord e la Mosella, con un intensissimo appoggio aereo, attra- verso il territorio del Belgio e del Lussemburgo allo scopo di (…)”.
Il “Piano Giallo” venne conosciuto dal nemico; la data era quella del 17 gennaio, il 12 gennaio i documenti arrivarono a Gamelin. Adesso i fran- cesi sapevano tutto.
Hitler, furioso, con la bava alla bocca, con un atteggiamento di di- sprezzo verso quei traditori e incompetenti che avevano svelato il piano ai nemici, fece una cosa saggia, rinviò tutto a primavera.
Così sui fronti rimaneva una calma assoluta, anche se non mancavano le attività sotterranee.
L’iniziativa pacifista di Hitler, tutta intesa a riservare alla Gran Breta- gna e alla Francia l’allargamento della guerra, come già evidenziato so- pra, portava ad una situazione di stallo oggettivo.
Solo che Hitler faceva le cose sul serio.
Mentre i grandi maestri del pensiero occidentale passavano l’inverno fantasticando sul modo di attaccare la Germania, (attacco della Ruhr attraverso il Belgio, attacco ad oriente verso la Grecia e i Balcani inter- rompendo le forniture di benzina dalla Russia, …), il Signore del Male aveva convocato il 10 ottobre del 1939 alle ore 11, alla Cancelleria i co- mandanti delle tre armi, nientemeno che i capi dell’Oberkommando des heeres.
Erano sette le persone convocate: i generali Keitel, Jodl, Warlimont, Brauchitsch, Göring, Raeder, Halder.
Hitler presentò un memorandum nel quale erano indicate le ragioni della decisione di sferrare un attacco risolutivo in Occidente se Francia e Inghilterra non avessero accettato le proposte di pace tedesche.
Non chiese il parere dei presenti, si limitò ad esporre le direttive segre- tissime preparate il giorno prima. Ecco il documento: “Se dovesse ap- parir chiaro nell’immediato futuro che l’Inghilterra, e sulle sue orme anche la Francia, non sono disposte a por fine alla guerra, deciderò di agire energicamente e aggressivamente senza troppo indugiare.
Per cui impartisco i seguenti ordini: si debbono fare i preparativi per una operazione d’assalto (…) attraverso il Lussemburgo, il Belgio e l’Olanda. Tale attacco dovrà essere effettuato il più presto possibile.
L’obiettivo sarà la sconfitta del maggior numero possibile di forze ope- ranti francesi, nonché degli alleati, combattenti al loro fianco, e nel con- tempo l’occupazione della maggior parte possibile dell’Olanda, del Bel- gio e della Francia settentrionale, come base per condurre una efficace guerra aerea e navale contro l’Inghilterra (…)
Chiedo ai comandanti in capo di trasmettermi quanto prima dei rap- porti dettagliati sui piani da essi concepiti in base alle presenti direttive e di tenermi costantemente informato (…)
Altro che pace, dunque, e altro che disponibilità tedesca a porre fine al massacro per il bene della Germania e dell’Europa.
La finta guerra fra anglo-francesi e tedeschi era dunque conseguenza degli errori anglo-francesi che avevano sottovalutato la forza dei tede- schi.
E la dichiarazione di guerra di Francia e Inghilterra alla Germania del 3 settembre era rimasta sulla carta, un rispetto per la Polonia, ma una salvaguardia per i propri interessi nazionali (…)
Cfr. Norman Davies, La rivolta, Milano 1997, op. cit. pag. 47
Nonostante la dichiarazione di guerra né Gran Bretagna, né Francia diedero segno di voler combattere e la Polonia fu lasciata sola ad af- frontare il nemico.
La RAF gettò dal cielo volantini su Berlino intimando ai tedeschi di de- sistere.
L’esercito francese oltrepassò il confine occidentale della Germania per testarne la risposta, ma si ritirò subito appena si trovò sotto il fuoco ne- mico dopo essere avanzato di circa 10 Km.
Le sue complicate procedure di mobilitazione implicavano che le pro- messe di Gamelin non potessero essere mantenute.
All’incontro franco-britannico del 12 settembre non era presente nessun rappresentante del governo di Varsavia e fu stabilito di non intrapren- dere nessuna azione di rilievo.
Il destino della Polonia era segnato.
- GUERRA LAMPO E STRATEGIE DI GUERRA
La Germania impressionò il mondo con la sua fulminea azione contro la Polonia.
In Polonia aveva dimostrato la supremazia della guerra orchestrata dalla sintesi fra forze corazzate e forze aeree.
Giustamente è stato osservato che non era una novità clamorosa nell’ambito delle strategie militari.
Prima di tutto il termine” Guerra Lampo” è di origine anglo-sassone perché la teoria della guerra lampo col nome di “lightning” era stata elaborata in Gran Bretagna da teorici inglesi come Liddell Hart, Fuller, Martell.
Addirittura prima del 1933 le pratiche di guerra con l’uso del carro ar- mato erano state rese operative in URSS da ufficiali tedeschi in virtù di accordi intercorsi fra tedeschi e sovietici!
Perché i principi della guerra sono eterni: sorpresa, velocità e potenza. L’enorme vantaggio dei tedeschi all’inizio del conflitto, come abbiamo osservato, è stato determinato non tanto dal “Blitzkreig”, ma da come i tedeschi hanno affrontato la guerra: con una preparazione superiore agli avversari.
Nella prima guerra mondiale, infatti, vi è stato un primato della linea difensiva su quella offensiva.
Come indica il maresciallo di Francia De Lattre de Tassigny nella pre- fazione de “La storia militare della seconda guerra mondiale”, di Chas- sin: “Se grazie all’impiego dei mezzi corazzati l’offensiva ha potuto ab- battere le più solide barriere, la ragione principale è da ricercarsi, con- trariamente all’opinione di molti teorici, nell’aumento della velocità dell’attacco, in rapporto alla celerità di tiro delle armi difensive”.
Il che significa questo, sempre secondo il maresciallo di Francia: che nel 1914 i fanti, avanzando alla velocità di 2 Km all’ora, venivano poi ac- colti da armi capaci di sparare due colpi al minuto.
Con l’introduzione delle mitragliatrici si era arrivati a 400 colpi al mi- nuto.
Nel 1939 il carro armato viaggiava a 20 Km all’ora, le mitragliatrici non lo abbattevano, i cannoni anti-carro avevano una celerità di tiro di venti colpi al minuto.
Tutto era cambiato.
L’offensiva aveva ritrovato il suo primato sulla linea difensiva. Eppure, al di là della paternità del Blitzkrieg, i tedeschi erano riusciti nei primi mesi di guerra a terrorizzare con la loro potenza il mondo intero.
Chi, infatti, poteva dirsi indifferente alla potenza di fuoco, morte, di- struzione che proveniva dall’esercito germanico, dalle SS, dalle Ein- satzgruppen?
Poiché la guerra era cambiata, non solo non si risparmiavano i civili, ma in poche ore, pochi giorni, c’era la possibilità di dare spallate incre- dibili alle linee difensive avversarie.
Così Hitler diventò un genio militare nei primi mesi di guerra, illu- dendo pure una parte delle gerarchie militari prussiane.
- DE GAULLE
I grandi uomini, si sa, hanno la capacità di intercettare i momenti chiave della storia.
Abbiamo visto cosa pensava Winston Churchill della guerra e dei nazi- sti, abbiamo accennato alla grandezza di Roosevelt, non abbiamo sot- tovalutato il cinismo di Stalin, né possiamo dire che Hitler e Mussolini non fossero astuti gangsters, in fatto di politica militare.
Tra i grandi non si può scordare Charles De Gaulle.
Anche De Gaulle non aveva mai avuto dubbi su chi fosse Hitler, forse il suo sguardo verso la Germania nazista era meno prudente di quello di Churchill.
Nel suo incarico presso la Segreteria della Difesa nazionale il generale aveva assistito alle iniziative di Hitler eletto Cancelliere e certamente non gli erano piaciute.
La Germania, nel giro di pochi mesi, aveva abbandonato la conferenza sul disarmo e la Società delle Nazioni; la sua irrequietezza di fronte all’ordine fissato dal trattato di Versailles, la volontà di riarmarsi non erano problemi indifferenti all’attenzione di De Gaulle.
Nel contempo, proprio il generale aveva constatato con grande tri- stezza il degrado dell’apparato militare francese e la sua obsoleta orga- nizzazione.
“Vers l’armée de métier” fu il più importante libro nel periodo interbel- lico.
Era un libro contro il mito delle nazioni in armi, contro quelle masse di soldati che erano andate al massacro nella prima guerra mondiale a Verdun o sulla Somme.
Suggeriva, il generale, un corpo di spedizione di centomila uomini, so- stenute da artiglieria, aviazione, non tanto in grado di vincere la guerra, ma in grado di interpretare una strategia di movimento che colpisse l’avversario.
Si direbbe che Hitler lo prese in parola.
Soprattutto De Gaulle era angosciato dalla staticità della linea difensiva francese, che poggiava sulla mitica linea Maginot.
Sapeva che quel baluardo, con le dinamiche della guerra moderna, era troppo fragile e insieme era un totem dell’esercito francese, più che un’oggettiva difesa.
Fu così il propugnatore per eccellenza in Francia del mezzo corazzato. I vertici militari, secondo il generale, erano semplicemente inadeguati e arretrati ad affrontare il pericolo tedesco che nel 1935 stava reintrodu- cendo il servizio militare obbligatorio, senza contare che nel 1936 Mus- solini attaccò l’Etiopia e Hitler denunciò il patto di Locarno.
L’unico che sembrava avere una certa attenzione per De Gaulle e le sue sensate riflessioni in favore delle truppe corazzate era Paul Reynaud, leader della destra moderata, che presentò un ordine del giorno in par- lamento a favore della modernizzazione dell’esercito francese.
Non se ne fece nulla, i fatti diedero ragione al generale.
- LA VERA GUERRA SUI MARI
Se in terra e in cielo si faceva finta, sul mare si fece subito sul serio I tedeschi, però, sulle onde non facevano paura come sulla terra.
Le supercorazzate Bismarck e Tirpitz dovevano essere ancora comple- tate, i nazisti si erano portati avanti con due corazzate tascabili e 16 sot- tomarini inviati nell’Atlantico prima dell’inizio delle ostilità.
Mentre nella campagna di Polonia il furore nazista aveva sprigionato tutta la sua violenza, sul mare l’attività della Marina era contrassegnata dalla prudenza: l’obiettivo primo era il naviglio alleato che \solcava l’Atlantico, come nel caso dell’Athenia, che fu silurata dai tedeschi con tanto di scuse da parte dell’ammiraglio Erich Raeder.
L’Inghilterra nel 1939 doveva importare milioni di merci via mare per mantenere il proprio livello di vita.
Dopo il 3 settembre le 3.000 navi oceaniche erano diventate un grosso bersaglio per l’attività degli U-Boot (abbreviazione di Unterseeboot) che impressionava persino Sir Winston Churchill.
L’Athenia era una nave di linea, fu affondata senza nessun preavviso anche se Hitler, per compensare la guerra di sterminio su terra, aveva dato ordine, in un primo momento, di mantenere almeno in mare un contegno dignitoso secondo le convenzioni dell’Aia.
Il 17 settembre i tedeschi si fecero più coraggiosi andando a colpire al largo della costa occidentale delle isole britanniche la portaerei Coura- geous.
Il 30 settembre la direttiva di Hitler chiarì che il metodo nazista di con- durre la guerra era lo stesso per tutte le armi.
La guerra per mare, deliberò Hitler, doveva essere condotta sia contro la Francia che contro l’Inghilterra.
Le navi trasporto e mercantili, continuava la direttiva, dovevano essere trattate come navi nemiche e affondate senza preavviso: si doveva spa- rare anche sulle navi mercantili che avessero usato la radio dopo essere state fermate.
L’affondamento delle navi mercantili, poi, doveva essere giustificato come gesto di possibile confusione con navi da guerra o ausiliarie.
Per dimostrare che alle parole seguono i fatti nel giorno della direttiva la Admiral Graf Spee, corazzata tascabile, affondò il mercantile inglese Clement, portando le perdite inglesi a 185.000 tonnellate in un mese. Insomma i nazisti anche sul mare non badavano a spese, l’ouverture della guerra marina li vide affondare 41 navi alleate o neutrali senza contare il prestigioso risultato ottenuto con l’affondamento della coraz- zata Royal Oak ormeggiata nella rada di Scapa Flow.
La sommergibilistica tedesca funzionava a meraviglia, ma anche le fa- mose corazzate tascabili imperversavano come corsare sull’Atlantico. Fino a quando nel Mar della Plata Hitler per la prima volta si prese una mazzata che di certo non si aspettava.
- LA BATTAGLIA DEL MAR DELLA PLATA
L’affondamento del piroscafo inglese Clement era avvenuto vicino alle coste brasiliane.
Che cosa ci facesse la corazzata tascabile, vanto della marina tedesca, Admiral Graf Spee, nelle acque dell’Atlantico del Sud la dice lunga sulla grande attenzione dei tedeschi verso il naviglio inglese sulle acque dell’intero globo.
A capo della Graf Spee vi era il comandante di vascello Hans Langsdorff, un vero gentiluomo fedele alla grande tradizione marina- resca: nessuna nave viene affondata prima di essere completamente evacuata, i comandanti fatti prigionieri vengono accolti a bordo con tutti gli onori, gli eventuali equipaggi affondati ricevono cure e ricovero presso l’Altmark, l’altra nave di appoggio alla corazzata tascabile.
Forse Langsdorff era deluso del bottino ottenuto dalle sue escursioni nelle acque calde dell’Oceano Indiano e prima di ritornare in Germania voleva migliorare il suo fatturato bellico nel traffico del Rio della Plata, davanti a Montevideo.
È qui che a 150 miglia da Montevideo la corazzata tascabile venne indi- viduata da tre navi britanniche e costretta a subire in un duro scontro lo sfondamento delle cucine, la messa in avaria di due parti, il non uti- lizzo dell’artiglieria: Langsdorff non prese il largo anche se lo poteva fare, aveva a cuore la nave e i suoi uomini.
Così si rifugiò nel porto di Montevideo, dove rimase tre giorni in rada perché vi erano tre incrociatori britannici che avevano spiegato le ban- diere di combattimento.
Hitler tempestò Langsdorff di telegrammi, lo accusò di vigliaccheria per non recarsi in mare aperto a combattere, ma il capitano di vascello era certamente migliore della Gestapo, delle SS e dei nazisti.
Era prima di tutto un soldato, un marinaio.
Così il 17 dicembre del 1939 alle ore 18 davanti ad una grande folla che si radunò sulla passeggiata a mare di Montevideo la Graf Spee abban- donò il porto.
Langsdorff scaricò la maggior parte del suo equipaggio, una squadra di emergenza portò la nave nel mezzo dell’estuario: si udirono tre esplosioni, la nave affondò.
Il giorno dopo Langsdorff si suicidò. Un modo tedesco e non nazista di fare la guerra c’era.
- LA PARENTESI FINLANDESE
La chiamano parentesi finlandese, ma vista da vicino si tratta di una guerra che avrà serie ripercussioni sulla condotta dell’Unione Sovietica nel conflitto del 1941 coi nazisti.
La mattina del 30 novembre 1939 l’Armata Rossa invase la Finlandia che aveva fatto parte del territorio russo dal 1808 al 1917.
In seguito aveva combattuto contro i bolscevichi ottenendo una linea di demarcazione che Stalin riteneva troppo vicina a Leningrado.
E Stalin, che poi sarà decisivo nella lotta antifascista, qui si comportò come Hitler a Varsavia, facendo bombardare Helsinki.
Il 2 dicembre l’agenzia sovietica TASS annuncerà la nascita di un go- verno popolare in Finlandia, mentre Francia, Inghilterra e Stati Uniti ammiravano la piccola Finlandia che si batteva con coraggio contro l’orso sovietico.
Ma il problema non era solo quello del territorio finlandese.
Lettonia, Lituania, Estonia, i cosiddetti paesi baltici, erano anche loro sotto l’influenza sovietica.
Così il 28 settembre l’Estonia aveva firmato a Mosca un accordo che prevedeva un’assistenza reciproca fra le parti anche di tipo militare, il 5 ottobre era stata la volta della Lettonia
Con le clausole segrete del trattato Molotov-Ribbentrop anche la Litua- nia di fatto venne annessa all’Unione Sovietica, era la fine dell’indipen- denza dei tre stati baltici: rimaneva in piedi il problema della Finlandia. Il Cremlino per assicurarsi la difesa di Leningrado domandava l’arre- tramento della frontiera Careliana, una vasta fascia di territorio finlan- dese che portava a Leningrado.
I finlandesi si opposero fino al 26 novembre, quando i sovietici attacca- rono i confini dopo aver rifiutato ogni trattativa e una possibile media- zione in proposito il 12 novembre.
E qui le cose cambiarono per Stalin, come per Hitler erano cambiate con la Polonia.
L’espansione sovietica, infatti, era riuscita con abili trattati e accordi coi tedeschi ad annettersi i tre paesi baltici, la Bessarabia, la Bucovina, non- ché la Polonia il 17 settembre.
Ora si trattava di fare la guerra, una guerra impopolare considerato che l’opinione pubblica mondiale stava dalla parte del piccolo David fin- landese contro il Golia russo.
Bisogna anche in questo caso fare alcune precisazioni.
È vero che le pretese di Stalin intaccavano l’orgoglio nazionale finlan- dese, ma è anche giusto riconoscere che la difesa del golfo di Finlandia verso Leningrado era un modo di salvaguardare la Russia da un even- tuale attacco tedesco.
Scoppiò così una piccola-grande guerra. I sovietici fecero subito fiasco.
Intanto fu detto che il popolo finlandese avrebbe accolto a braccia aperte l’Armata Rossa.
Bombardieri dell’aviazione russa lanciarono manifestini che invitavano i lavoratori a unirsi ai sovietici per rovesciare gli oppressori capitalisti. A Terijoki, la prima città finnica liberata dai russi, fu immediatamente costituito un governo fantoccio., il governo democratico della Finlandia capeggiato da Otto Kuusinen.
Stalin, però, aveva sottovalutato il nazionalismo finnico, il suo valore e le oggettive difficoltà di una campagna invernale.
Il territorio finlandese, infatti, si prestava ad essere difeso egregiamente per svariati motivi.
I tre quarti della sua estensione, dal Nord del lago Ladoga fino alla Pe- nisola dei pescatori, era impraticabile causa il clima (40/50 gradi sotto- zero).
Durante i mesi invernali è nota la scarsezza di luce sul territorio.
In Finlandia ci sono circa 35.000 laghi e poi c’era la linea Mannerheim, che prendeva il nome dal maresciallo che l’aveva fatta costruire.
La linea serviva a proteggere Koivisto, che per la sua posizione è detta la piccola Gibilterra del Nord e Viipuri, già definita da Pietro il Grande, la chiave della Finlandia.
I russi fecero errori grossolani dal punto di vista tattico militare. Intanto mobilitarono solo 300.000 uomini nella circoscrizione di Lenin- grado, (i finlandesi ne mobilitarono 350.000).
Iniziarono l’attacco d’inverno, con la meteorologia che favorì i finlan- desi, al punto che i sovietici non riuscirono ad usare i carri armati, né l’aviazione tattica.
Il commando sovietico lanciò all’attacco quattro armate, le forze russe miravano a occupare la Penisola dei pescatori a Petsamo per tagliare le comunicazioni con l’alta Norvegia.
Le preoccupazioni al Cremlino non mancavano.
La Società delle Nazioni, riunitasi il 9 dicembre, aveva fermamente con- dannato l’attacco sovietico alla piccola Finlandia, le simpatie del mondo occidentale verso la terra delle renne potevano nuocere alla politica sta- liniana, se la guerra non si fosse conclusa al più presto.
Il cordone ombelicale di Petsamo, unico porto aperto sul mondo libero, andava reciso alla svelta.
L’Armata rossa all’inizio aveva fatto alcuni progressi, ma poi era ini- ziata quella che si può definire una guerriglia di logoramento che sor- prese i sovietici.
Gruppi di sciatori-tiratori che formavano reparti agili, dotati di arma- mento leggero potevano muoversi nelle più delicate situazioni atmo- sferiche in piena autonomia.
I reparti di sciatori guerriglieri, perfettamente mimetizzati per la guerra bianca, capaci di difendersi dalla neve e dal freddo, erano per i sovietici un vero incubo.
Sbucavano dalla foresta vestiti di bianco, con gli sci ai piedi e divide- vano le lunghe colonne russe per distruggerle poco alla volta.
Nikita Krusciov in quei giorni annotò il nervosismo di Stalin che insultò violentemente il Maresciallo Kliment Efremovič Vorošilov, Commissa- rio alla difesa, per il disastro militare in atto.
Il Maresciallo non solo non si lasciò intimidire, ma urlò in faccia a Stalin: “devi biasimare te stesso, sei tu che hai eliminato la vecchia guardia dell’esercito, che hai fatto fucilare i nostri migliori generali!”.
La baruffa si concluse con l’indignato maresciallo che rovesciava un grande piatto di maialino arrosto.
L’esercito di Stalin, impacciato nei movimenti, appesantito dai carri ar- mati, si muoveva su terreni impervi e gelati con prevedibile lentezza diventando oggetto di sanguinose imboscate da parte finlandese.
Così l’inviato del Corriere della sera Indro Montanelli descrive la situa- zione bellica in Finlandia: “Finora le forze sovietiche, che per una pro- fondità di una quindicina di Km sono penetrate in territorio finlandese nell’istmo di Carelia sono soltanto cinque divisioni (…)
Con queste cinque divisioni di fanteria e due di carri armati si doveva, secondo un piano compilato a Mosca, rompere la linea Mannerheim dell’istmo careliano e portare una minaccia diretta e immediata contro Viipuri nello stesso momento in cui un energico bombardamento di Helsinki avrebbe abbattuto il morale della popolazione. In tali condi- zioni, calcolava il Cremlino, la Finlandia avrebbe ceduto e il prestigio dell’Unione, sollevato, avrebbe aggiunto altri rapidi successi sugli altri fronti.
Tutto ciò non è avvenuto.
Il bombardamento di Helsinki ha inorridito, ma non terrificato la po- polazione (…)
In tali condizioni è facile comprendere come il generale Mereckov trovi molto imbarazzato non solo a realizzare le condizioni di un successo largo a breve scadenza, ma anche a tenere le posizioni conquistate in
questa prima offensiva che, non avendo raggiunto gli obiettivi propo- sti, né provocato gli effetti scontati, può considerarsi fallita”.
Cfr. Indro Montanelli, I cento giorni della Finlandia, Milano 1940.
La tattica di logoramento era semplicissima: si lasciavano avanzare le truppe sovietiche, le si lasciavano penetrare per inseguire il nemico e quindi le si attaccava ai fianchi e alle spalle per annientarle definitiva- mente negli spazi più favorevoli, dopo averle prese per fame e stan- chezza.
Quando il 20 dicembre del 1939 i sovietici attaccarono la linea Manne- rheim su un fronte di 30 km con il supporto di ben 12 divisioni, sem- brava che la Finlandia dovesse soccombere.
Invece l’attacco si rivelò infruttuoso e ininfluente per spostare il fronte in favore dei russi.
Stalin si accorse ben presto di aver sbagliato quasi tutto.
I soldati sovietici, non adeguatamente preparati per una guerra nel freddo artico, guidati a volte da ufficiali inadeguati e incompetenti so- pravvissuti alle purghe della metà degli Anni Trenta, lanciarono grosse offensive sull’istmo della Carelia a Nord del lago Ladoga, in Finlandia centrale e a Petsamo nel Nord.
Solo le truppe da sbarco a Petsamo riuscirono a prendere la città e le miniere di nichel e ad avanzare verso Sud nella zona smilitarizzata frutto di un precedente accordo con la Russia.
La Finlandia aveva cercato in tutti i modi di ottenere l’appoggio diplo- matico della Germania, ma i tedeschi speravano in una vittoria russa che consentisse la collaborazione fra nazismo e soviet contro Francia e Inghilterra.
Come si noterà la situazione era oggettivamente ingarbugliata dal trat- tato Molotov-Ribbentrop.
Nessun voleva entrare seriamente nella questione finlandese per paura di scottarsi con il fuoco di una guerra totale.
Persino la Società delle Nazioni, al di là di qualche retorico attestato in favore della causa finlandese, fece qualcosa.
L’Unione Sovietica fu espulsa dalla Società delle Nazioni nella quale era entrata nel 1934.
Questo non fece altro che rendere sempre più scettici i sovietici sul ruolo degli organismi internazionali “manovrati” dalle potenze capita- listiche occidentali, secondo dottrina marxista-leninista.
Ma la consapevolezza sovietica di essere entrati in modo sbagliato in una guerra sbagliata si doveva tramutare in una nuova offensiva.
Si era agito con presunzione, sottovalutato il nemico, agito con superfi- cialità; tutte cose che in guerra costano caro.
Quando in un contrattacco finlandese i russi furono scaraventati oltre frontiera con la perdita di 25.000 uomini, Stalin fece fucilare il coman- dante della 54a divisione.
Da questo episodio la strategia sovietica cambiò metodo.
L’offensiva del gennaio 1940 fu durissima per la Finlandia.
I sovietici cominciarono a bombardare città e villaggi, l’uso dell’avia- zione e dell’artiglieria pesante mise a dura prova le difese finniche.
La linea Mannerheim reggeva, ma non al centro ove le colonne sovieti- che convergevano verso Koivisto, avamposto di decisiva importanza per Viipuri.
La tattica sovietica era cambiata non solo militarmente, ma anche dal punto di vista politico.
Il 29 gennaio il governo sovietico aveva iniziato una trattativa segreta in Svezia con il governo finlandese.
Si dichiarò disposto ad abbandonare l’intenzione di introdurre un go- verno comunista in Finlandia in cambio della conquista delle terre di confine che proteggevano Leningrado.
Malgrado ciò, come si è visto, le operazioni belliche continuavano aspramente da parte sovietica con il generale Timošenko che a febbraio aveva minacciato la linea Mannerheim.
E mentre Neville Chamberlain il 5 febbraio1940 dichiarava al primo mi- nistro francese “non possiamo permetterci che la Finlandia scompaia dalla carta geografica”, i soviet preparavano l’offensiva finale.
Il 10 febbraio la linea Mannerheim cedette.
La seconda linea della difesa finlandese cedette il 13 febbraio, il 16 feb- braio le truppe finlandesi erano esauste, ma non ancora vinte.
Il 4 marzo 1940 le forze sovietiche lanciarono un attacco massiccio con- tro la città finlandese di Viipuri.
In questo modo riuscirono ad aggirare la linea Mannerheim e così il 5 marzo i finlandesi decisero che ogni resistenza era vana.
A quel punto le richieste sovietiche andarono ben oltre a ciò che ave- vano chiesto prima.
Stalin aveva salvato il prestigio sovietico per il rotto della cuffia e aveva ribadito che la sua politica mirava a salvaguardare il solo paese del so- cialismo possibile.
Le vittorie in battaglia dovevano preparare la soluzione diplomatica. Se è vero che pretese un passaggio di territorio maggiore a Sud, non aumentò le richieste territoriali a Nord e, come convenuto, accettò di evacuare la zona di Petsamo e di restituirla alla Finlandia.
L’intelligenza politica del georgiano anche in questo caso unì il cinismo del calcolo politico agli interessi dei russi.
Patteggiando con il governo di Helsinki e non con quello fantoccio di Kuusinen, Stalin aveva assicurato Inghilterra, Francia e addirittura Stati Uniti, che non aveva intenzioni minacciose nei loro confronti e verso i sistemi parlamentari occidentali.
In fondo quello di restituire ai finlandesi il territorio occupato intorno a Petsamo andava inserito in un contesto di non rottura totale sul piano diplomatico con l’occidente e questo va attribuito al genio staliniano. Solo che la guerra finnica aveva denunciato superficialità e sottovalu- tazione dell’avversario proprio da quei comunisti che non volevano en- trare per nulla nelle guerre espansioniste dei paesi capitalisti.
Nikita Krusciov ricordò con estrema lucidità una riunione, avvenuta prima della guerra finlandese, con Kirill Mereckov, Vjačeslav Molotov e Otto Kuusinen, segretario generale del Comintern: “Quando entrai Stalin stava dicendo: Iniziamo oggi stesso… Non dovevamo fare altro che alzare un poco la voce e i finlandesi avrebbero obbedito. Se non bastava, avremmo sparato un colpo, dopo di che loro avrebbero alzato le mani e si sarebbero arresi”.
Cfr. C. Andrew, O. Gordievskij, op. cit. pag. 270
L’anticomunismo è a buon mercato nella vicenda della guerra russo- finlandese, ma anche l’antifascismo traballa, viste le congratulazioni te- desche per la vittoria sovietica in terra finlandese.
Anche un comunista come Giuseppe Boffa ebbe in proposito qualche riserva: “(…) Non è questo un giudizio sulle rivendicazioni sovietiche che erano moderate e in quel periodo comprensibili, né sul comporta- mento dei dirigenti finnici che fu poco avveduto. Dopo tre mesi di ope- razioni belliche tutt’altro che brillanti (…) l’URSS concluse la pace ac- contentandosi di concessioni territoriali modeste (…) che poi sarebbero andate perdute in poche settimane all’inizio dell’aggressione nazista. Molto alto fu però il prezzo pagato in termini politici.
In Finlandia la sconfitta lasciò rancori e alimentò sentimenti di rivincita che rafforzarono la base di massa dei gruppi dominanti più antisovie- tici. Nel mondo la guerra finnica nutrì una gigantesca campagna contro l’URSS dando rinnovato vigore alle forze che le erano più avverse. L’espulsione dei sovietici dalla moribonda Società delle Nazioni ne fu solo l’episodio meno grave. In Francia e in Inghilterra, nonostante le ostilità con la Germania, governi e stati maggiori discussero progetti per inviare un corpo di spedizione in aiuto per attaccare l’URSS alle spalle bombardando i campi petroliferi di Baku. Certo, piani del genere deponevano innanzitutto contro la sagacia dei governanti dei due paesi, fra cui restavano forti le tendenze che nel ’38 avevano portato alla capitolazione pro hitleriana di Monaco. Ma questa era una scarsa con- solazione per i capi dell’URSS che vedevano di nuovo profilarsi la mi- naccia di un fronte comune di tutte le potenze capitaliste, quel fronte ostile che essi avevano cercato con tanta fatica di scongiurare.”
Cfr. Giuseppe Boffa, Storia dell’Unione Sovietica, Milano 1979, pag. 13
Ricordiamo ancora una volta che l’amicizia con la Germania gettò nello smarrimento il fronte antifascista legato all’Unione Sovietica in tutto il mondo.
I sovietici in quel periodo continuavano a denunciare la guerra impe- rialista in corso.
Stalin, poi, non mancava di ricordare come Francia e Inghilterra aves- sero rozzamente respinto le proposte di pace della Germania! Molotov era giunto a definire criminale una guerra che si proponeva la fine dell’hitlerismo, e nel Comintern tornò in vigore il linguaggio settario contro la socialdemocrazia che propugnava una guerra antifascista. Il
nostro” miscuglio antifascista”, viveva uno dei momenti più oscuri e travagliati.
La Finlandia pagò la pace a caro prezzo.
Furono ceduti i territori lungo la costa baltica dandole in prestito per trenta anni la penisola di Hanko.
Nella breve guerra i sovietici persero 290.000 uomini e i finlandesi 30.000.
I finlandesi però avevano compreso una questione di non secondaria importanza.
Francia e Inghilterra manifestavano ostilità anti nazista più a parole che con i fatti.
Mentre Chamberlain addossò a Norvegia e Svezia la responsabilità del non intervento di Francia e Inghilterra.
Dall’altra parte, sostenevano gli Alleati, si era evitato in questo modo di spingere la Russia di Stalin in braccia alla Germania.
L’interpretazione del conflitto finlandese poi portò a errori clamorosi sia in campo alleato che in quello nazista.
I francesi, ad esempio, rivelarono che se aveva tenuto la linea Manne- rheim, molto meglio avrebbe tenuto la linea Maginot.
I tedeschi pensarono che i russi avevano un esercito vecchio e inade- guato.
La catastrofe era servita sul tavolo della superficialità e del senso co- mune.
Un prezzo enorme invece era costato ai sovietici.
Oltre al discredito politico era evidente che le purghe operate da Stalin nell’esercito nel 1937-1938 avevano impoverito l’Armata rossa di qua- dri dirigenti all’altezza della situazione.
I lugubri militanti staliniani che guidavano l’esercito ne avevano fatte di tutti i colori per mandare al massacro 48.745 soldati.
Stalin non doveva fare altro che meditare sui suoi errori, ma la sua dif- fidenza verso l’esercito rimase intatta.
Nonostante tutto manteneva nei ranghi i suoi militari-poliziotti, rilan- ciava il dominio dei commissari politici e solo il generale Timošenko era la novità rispetto al disgraziato e incompetente Vorošilov.
I sovietici pagheranno a caro prezzo le loro sciagurate campagne mili- tari causa inettitudine, inesperienza dei consiglieri militari, ma Stalin, lo vedremo in seguito, fu un lavoratore pedante, infaticabile, sistema- tico proprio nell’organizzare l’esercito, non nei piani di battaglia, ma nella sistematica costruzione della macchina da guerra dell’Armata Rossa.
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