Mario Tronti, 86 anni uno dei filosofi marxisti più prestigiosi della storia del movimento operaio, che fondò Classe operaia nel 63′, dopo aver abbandonato Quaderni Rossi di Panzieri, è il padre dell’Operaismo, cioè dell’autonomia operaia come categoria concettuale della lotta di classe.
Tronti, nel corso del dibattito parlamentare sulla riforma elettorale, ha avuto il coraggio di proporre una riflessione sulla Rivoluzione di Ottobre di cui ricorre il centenario.
Ha dichiarato, con grande onestà intellettuale, di sentirsi figlio di quella storia.
Poi ha ribadito che se le rivoluzioni proletarie sono sempre finite nel terrore, quelle borghesi non sono state da meno.
Quante sono state, aggiungo io, le vittime del colonialismo e dell’imperialismo?
Basta aver la pazienza di cercare su Wikipedia e si scopre che per la colonizzazione del Nord e Sud America si pensa che siano state soppressi dai 50 ai 100 milioni di indigeni.
Per le controrivoluzioni reazionarie fasciste, nazionaliste, naziste i morti possono essere decine di milioni.
Basta ricordare cosa è successo in Cina, in Vietnam, in Corea del Nord nel 1950, nell’Europa dell’Est, durante la seconda guerra mondiale, in Spagna, in Francia, in Italia negli anni trenta..
Insomma in tutti i paesi del pianeta terra, dove contadini e operai si battevano per la propria emancipazione, la repressione dei diritti ” democratici” ( libertà di sciopero, suffragio universale maschile e femminile, diritto alla salute e all’istruzione…) è stata intrinseca alle varie rivoluzioni industriali.
La borghesia storicamente ha sempre trattato le rivendicazioni della classe operaia a colpi di fucile.
L’umanesimo borghese è stato insegnato con la repressione degli eserciti, per i proletari non c’erano scuole e maestri, ma fucilazioni e torture.
Tronti ora è nel Pd, si dice d’accordo che ormai è solo possibile imboccare la strada di riforme graduali, senza però, dichiara egli stesso, pensare di cambiare minimamente il rapporto di forza di chi sta sotto chi sta sopra
Che la “rivoluzione non sia un pranzo di gala” era un’affermazione diffusa negli anni settanta, per giustificare moralmente l’uso della forza.
Oggi la usano sfegatati popolani per spiegare al popolo la loro linea dura sul Rosatellum, sulle regole del parlamentarismo, sulla banca d’Italia e va bene, ognuno faccia il suo.
L’Italia, dicunt, a colpi di legislature benevole, da repubblica delle banane subirà un cambiamento radicale in meglio.
Ma tutti sanno che sono palle.
Il problema è che oggi non solo non ci sono più rivoluzionari, ma manco riformisti seri.
Quelli che una volta erano nel giro dell’operaismo, e oggi sono nelle istituzioni, magari avessero sposato il riformismo serio e graduale.
Non saremmo a questo punto dove i proletari sfruttati e maciullati dalle guerre imperialiste sono considerati un noioso impedimento al progresso.
In Italia, invece, ancora una volta bisogna far finta di fare la rivoluzione per avere delle riforme.
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