Massimo D’Alema ritorna nel PD.

L’esperienza in art 1 con Bersani è già finita.

Ma il leader Maximo, dicendo che lui era uscito dalla ditta perché questa si era ammalata di renzismo, ha fatto infuriare Renzi, ma anche il PD, soprattutto Enrico Letta.

Triste vicenda,questa, dell’unica forza sedicente riformista italiana che, comunque, rimane,secondo sondaggi,il primo partito d’Italia.

Grottesco, è un aggettivo benevolo per questa non notizia.

Oppure è una nota che stona in tutte le partiture.

D’Alema era nel PD quando Renzi prese il 40 per cento alle Europe nel 2014,se ne andò dopo il referendum costituzionale del 2016 che sanzionò la fine del renzismo.

Forse vuol dire che l’eterno der junge Togliatti se n’è andato dal rosa renziano quando la barca era già affondata.

Letta, intanto, nel 2014 era migrato in Francia come fece Nenni negli anni trenta,il PD però non è mai cambiato in questi anni.

Nel dopo Renzi e la scissione di Italia Viva, nel partito la svolta a sinistra non c’è mai stata.

Così ora Letta, che si palesa come un decisionista di grandi tradizioni progressiste, rivendica un grande e glorioso passato:il partito non è stato mai ammalato,ora ha ritrovato il suo equilibrio.

La classe politica del PD è tutto sommato contenta: il gioco delle parti tiene insieme un tutto senz’anima.

Operai e proletari votano Lega.

Ma chi se ne frega.

Cuperlo che rivendica di essere la sinistra del partito,sullo sciopero generale non ha detto una parola,e pure Letta non si è fatto notare per amore verso la lotta di classe.

Il renzismo portò a casa le unioni civili,ottanta euro per i redditi medio bassi, ma pure il Jobs act in pieno stile blariano.

La faccenda è seria per chi crede che votare il PD sia il meno peggio,tragica per chi crede che sia un partito seriamente riformista.

Il veto su Berlusconi presidente?

Atto dovuto per non essere tacciato di incurabile imbecillità tattica.

Quella strategica è sconosciuta.