Domani Conte dovrebbe lasciare la presidenza del consiglio, diventata la presidenza del CONIGLIO dopo che il pavido Salvini, forte coi migranti, si è mostrato per quello che è; un borghese, piccolo piccolo pronto a scappare quando arriva l’aria della costituzione repubblicana.
Brano tratto Dalla Vittoria della democrazia,vol. II da 1939 – 1945 Il racconto della guerra giusta di Pierluigi Raccagni
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1943 IL GRAN CONSIGLIO
Doveva essere una riunione “confidenziale” quella del Gran Consiglio, convocato alle 17,00 del 24 luglio.
Il Duce credeva, o faceva finta di credere, che in gioco non ci fosse altro che una prova di forza all’interno del PNF, dove mediocri collaboratori si agitavano nel momento della tempesta.
Per questo scelse il basso profilo: nessun addobbo alle finestre del balcone per annunciare il “concistoro fascista”, nessun moschettiere del Duce di guardia.
Piazza Venezia deserta, perché parecchi romani dopo i bombardamenti del 19 luglio avevano lasciato la città, caldo insopportabile, protocollo di rito: sahariana nera per tutti i 28 membri, Sala del Pappagallo, adiacente alla Sala del Mappamondo, ufficio del capo.
Vi fu il “Saluto al Duce” nel momento in cui Mussolini entrava alle 17,14 preceduto da Navarra, segretario personale, accompagnato da Scorza, segretario del partito.
“A noi” come ai bei tempi risuonò fra i presenti.
Mussolini, seduto al centro dei tavoli disposti a ferro di cavallo, ordinò a Scorza di fare l’appello.
Poi cominciarono le danze. Non c’era nemmeno uno stenografo per il verbale, “una cosa nostra nera” era il modo in cui Mussolini intendeva lavare i panni sporchi in casa.
Il Duce cominciò la relazione.
Naturalmente affrontò il tema della “guerra”.Fra lo stupore generale, il Duce, sempre così battagliero, con la sua efficacia retorica, con la sua tagliente determinazione, fece un discorso molto “prevedibile”, zeppo di giustificazioni sul suo operato.
Intanto disse che lui non aveva chiesto il comando supremo delle forze armate.
Per rafforzare questa singolare manifestazione di fuga dalle proprie responsabilità, presentò una lettera di Badoglio del 3 maggio 1940 che lo invitava ad assumere il comando supremo delle forze armate.
Accusò gli italiani di avere poco spirito guerriero perché agli invasori statunitensi tributavano calorose “accoglienze”, accusò Rommel di non aver seguito i suoi consigli ad El Alamein.
Giacomo Acerbo, ministro delle finanze, scrisse in seguito che la “relazione procedè fiacca, disordinata, contraddittoria…pareva che vagasse in un mondo irreale e che non fosse lui a parlare.”.
In effetti Mussolini insicuro, freddo, arrogante, senza entusiasmo, fu un vero e proprio disastro.
Biasimò la Germania che non aveva compreso l’importanza di evitare lo sbarco in Sicilia, poi, dopo due ore di chiacchiere auto assolutorie, si appoggiò allo schienale della sedia aspettando gli interventi come un atto di sfida.
Presero quindi la parola De Bono, membro più anziano del Gran Consiglio, parte decisiva della marcia su Roma che, più volte interrotto, dichiarò che la colpa non era certo dell’esercito che non aveva seguito gli ordini di Mussolini.
Bottai sottolineò la gravità della situazione e la mancanza di collegamento fra il capo del governo e i collaboratori.
In pratica, sentenziò Bottai, altro maestro di pensiero del fascismo, la relazione di Mussolini era la conferma che il Duce, isolato, non era stato capace né di comandare l’esecutivo, né di farsi ubbidire dallo Stato Maggiore dell’esercito.
L’atmosfera era pronta per l’intervento dell’ingegnere del colpo di stato.
Grandi si alzò e finalmente lesse il suo ordine del giorno già noto alla maggioranza dei presenti.“il Gran Consiglio dichiara…l’immediato ripristino di tutte le funzioni statali, attribuendo alla Corona, al Gran Consiglio, al Governo, al Parlamento, alle Corporazioni i compiti e le responsabilità stabilite dalle nostre leggi statali e costituzionali.
Invita il Capo del Governo a pregare la Maestà del re, verso la quale si rivolge fedele e fiducioso il cuore di tutta la Nazione, affinchè Egli voglia, per l’onore e la salvezza della Patria, assumere – con l’effettivo comando delle Forze Armate di terra, di mare e dell’aria, secondo l’articolo 5 dello Statuto del regno – quella suprema iniziativa di decisione che le nostre istituzioni a Lui attribuiscono e che sono sempre state, in tutta la nostra storia nazionale, il retaggio glorioso della nostra Augusta Dinastia di Savoia”.
CfrF.W. Deakin, op. cit, pag.595
Grandi, poi, ne disse al Duce di tutti i colori e ce ne fu per tutti: condannò la dittatura totalitaria, la spietata censura sulla stampa, denunciò la decadenza morale e politica del regime, l’inconsistenza del consiglio dei ministri…, disse che la guerra non era solo impopolare perché l’Italia la stava perdendo, ma perchè ormai si diceva che fosse la guerra di Mussolini, manco del fascismo.
Poi ci fu l’intervento del genero Galeazzo Ciano, che ribadì le sue accuse alla Germania che si era impegnata a non entrare in guerra fino al 1943 – 1944, nel senso che “gli italiani non erano dei traditori, ma dei traditi”.
Farinacci quindi intervenne con la sua mozione che era la copia carbone di quella di Grandi, tranne che per un dettaglio non insignificante: auspicava di vincolarsi ancora di più alla Germania di Hitler.
Dopo una breve pausa fin dopo mezzanotte il Gran Consiglio riprese: i giochi erano fatti; Galbiati, capo della Milizia, parlò a favore del Duce dicendo la cosa più vera e scontata del mondo: l’Italia era entrata in guerra con la Germania perché sicura della vittoria.
Scorza, segretario del partito, che si sera dichiarato d’accordo con Grandi, fu più prudente: il suo intervento fu inutile perché richiamava l’urgenza di radicali riforme all’interno del paese, nel governo e nelle forze armate.
Era la solita concessione ad un rimpasto di governo che era stato già fatto e non aveva portato a nulla.
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